«Quando un padre dà uno schiaffo al figlio che si sta comportando male dimostra che è arrabbiato lui, padre appunto, e che invece di ragionare sul comportamento dell’adolescente dà sfogo alla sua rabbia. Forse anche alla frustrazione per non aver cresciuto bene il ragazzo».
Un adolescente, tredici anni in questo caso, si comporta sempre come è stato educato?
«Certo, e la reazione di rabbia è sbagliatissima. Bisogna controllarla e comunicare in modo corretto. Sulle terapie comportamentali c’è una pila di libri alta così che lo spiega».
Un padre che molla un ceffone insegnerà la violenza al figlio?
«Rischierà di crescere un ragazzo che, a sua volta, educherà i proprio figli con gli schiaffi. Se mi arrabbio con qualcuno per strada, certo non lo aggredisco. Perché dovrei farlo con mio figlio?».
E se le parole con quel ragazzo sono finite? Se non ascolta più?
«Le parole con un figlio non devono finire mai. Il lavoro da fare è quello della prevenzione. La modifica di un comportamento sbagliato avviene con il tempo, con le parole e con l’esempio. Si chiamano percorsi di chiarificazione. Con i figli servono tempi lunghi, non c’è niente da fare».
La punizione?
«Se è emotiva, meglio lasciar perdere. E poi arriva sempre a cose fatte. Non modifica un comportamento e non può più evitare, per esempio, un pericolo».
Lei ha mai dato uno schiaffo a uno dei suoi tre figli?
«Una volta, al più piccolo. Aveva tre anni e mezzo e attraversò la strada con le auto in corsa. Poteva morire. Arrivai dall’altra parte e lo colpii. Invece avrei dovuto abbracciarlo».