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 2019  aprile 21 Domenica calendario

Le immagini del gatto dorato in Tanzania

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Ci sono due modi per vedere il gatto dorato nella foresta africana. Mettere una trappola con un laccio, come fanno i cacciatori di frodo. O mettere una fototrappola con sensori di calore e movimento, capace di scattare foto in automatico usando led all’infrarosso, come fanno gli esploratori moderni. Francesco Rovero appartiene alla seconda categoria. È appena tornato dalla foresta di Minziro in Tanzania, vicino al lago Vittoria, con il suo trofeo. Non la pelliccia morbida color oro che i bracconieri vendono dopo aver mangiato la carne, usata nei riti propiziatori, di circoncisione o come buon augurio prima di una battuta di caccia. Ma una manciata di foto, perlopiù tagliate, buie o sfocate, che ritraggono fra tronchi contorti e foglie giganti una delle specie più elusive del mondo: 1,3 metri di felino coda inclusa, muso piccolo e rotondo da ghepardo, passo felpato e tutta l’agilità necessaria per cacciare scimmie e scoiattoli anche sugli alberi, all’occorrenza. «Il gatto dorato è l’unico felino capace di vivere in una foresta africana. Mai senza le fototrappole si sarebbe fatto osservare da noi» racconta il 48enne naturalista dell’università di Firenze e del Museo delle Scienze di Trento ( Muse), veterano delle foreste della Tanzania, dove nel 2006 ha già scoperto una specie nuova: il toporagno elefante gigante, altro personaggio assai restio agli incontri. Barba e swahili fluente, Rovero appartiene a una categoria ancor più a rischio estinzione dei gatti dorati (classificati come vulnerabili, presenti anche in Africa occidentale, anche se nessuno ha idea di quanti ne esistano): quella degli esploratori di foreste tropicali. «In Italia siamo una decina, e in diminuzione. Sempre più spesso si usano satelliti, droni o banche dati, che però non sostituiscono l’emozione degli incontri reali. Il risultato è che queste foreste sono ancora pressoché sconosciute». Macchie scure sulle cartine, come nell’ottocento, se non fosse per Google Earth. «Lo usiamo, eccome» ammette Rovero. «Così come il gps. Perdersi in foresta è estremamente facile e fino a qualche anno fa ci muovevamo con dei pali per cercare la connessione con il satellite». Oggi un comodo gps tascabile ha permesso a Rovero e alle guide locali di piazzare 70 fototrappole, entro una griglia regolare vasta un centinaio di chilometri quadri. Ma non ha impedito al gruppo di perdersi, inoltrarsi per molti chilometri in Uganda e dover tornare al villaggio per mancanza di acqua. «Ci avevano detto che c’era una strada alla frontiera» racconta. «Invece era stata completamente ingoiata dalla vegetazione». Dopo un mese di osservazione, le fototrappole sono state recuperate. «A parte due, rubate dai cacciatori. Le abbiamo reinstallate tre volte, in zone diverse. Alcune, piazzate sugli alberi, hanno ripreso scoiattoli e scimmie notturne che erano sconosciute in questi luoghi». La spedizione è durata da ottobre a dicembre del 2018 grazie ai finanziamenti della provincia di Trento. Si è imbattuta da un lato in villaggi di indigeni quasi isolati dal mondo, dall’altro in mandrie di mucche che andavano a bere nei fiumi, spianando la vegetazione al loro procedere. Ha trovato tracce fresche di elefanti, anche in zone piuttosto fitte di foresta, e cacciatori di frodo che sembravano apparizioni. «Erano in due, armati di lance, con i vestiti sporchi di sangue. Tornavano da una battuta di caccia all’antilope» spiega il naturalista. Le fototrappole sono diffuse fra gli esploratori da una manciata di anni e hanno permesso di osservare nuove specie senza arrecare disturbo. Quando i loro sensori rilevano movimento e calore davanti a sé, scattano una foto e lanciano un lampo agli infrarossi, invisibile agli animali. Il toporagno fu osservato per la prima volta da Rovero sempre con questo strumento, nella foresta di Udzungwa, sulle montagne al centro della Tanzania. «Oggi la foresta è talmente disturbata dall’uomo – spiega l’esploratore – che almeno noi cerchiamo di i muoverci in punta di piedi».