Corriere della Sera, 21 aprile 2019
Intervista a Massimo Cacciari, che ama fare i tarocchi
Massimo Cacciari, a 74 anni, che rapporto ha con la vecchiaia?
«Tremendo. Detesto chi ne parla come di un sereno tramonto. Tremo all’idea che mi parta il cervello».
Pensa mai alla morte?
«Non me ne frega nulla. Ci penso continuamente, ma nei termini in cui ci pensava Spinoza, ma anche Platone, tante volte citati senza capirci nulla. Sapendo di dover finire, nessuna finitezza mi condiziona. Non aspiro a morire, ma mi esercito a morire vivendo bene».
E cos’è «vivere bene»?
«Aver dipeso il meno possibile da condizionamenti esterni, passioni irragionevoli, dagli altri e dai favori altrui. Aver difeso la mia legge interiore, non aver fatto male a nessuno».
Massimo Cacciari, professore emerito della Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che ha fondato con don Luigi Verzè nel 2002, socio dei Lincei, è autore di una sessantina di libri, molti tradotti in più lingue. Ha indagato sulla crisi del pensiero dialettico, ha scritto di borghesia e classe operaia, del Re Lear, di Occidente e utopie, di Dio, Europa e molto altro. L’ultimo libro, «La mente inquieta» (Einaudi) è un saggio sull’Umanesimo. È stato deputato del Pci, eurodeputato, sindaco della sua Venezia tre volte. Dal 2010, ha lasciato la politica attiva, non i talk, dove è garanzia d’invettive furiose. Di recente, ha dato del «pezzo di m... a chi non s’indigna sui migranti» e ha urlato al ministro Alfonso Bonafede «la vostra politica dell’integrazione fa schifo». Seduto nel suo ufficio all’università, abbastanza accigliato, ammette: «Il brutto carattere non è una fama, ce l’ho».
E perché ha un brutto carattere?
«Sono impaziente. Lo sono con chi non capisce e perché il tempo non mi basta mai».
Si narra che, da sindaco di Venezia, desse del cretino ai suoi.
«Mai e poi mai ai miei. Con altri mi è capitato spesso di essere villano e ho chiesto scusa».
È figlio di un pediatra e di una casalinga, che educazione ha ricevuto?
«Nessuna. Grandissimo merito dei miei genitori. Mi hanno insegnato a camminare, a nuotare, a parlare, a non rubare... le cose elementari, presupposto di ogni vita civile. E poi basta, mi hanno lasciato fare, fiducia assoluta, e mi hanno dato tutti i libri che mi servivano».
Come arriva la passione per la filosofia?
«A 15 anni, quando leggo “Fenomenologia dello spirito” di Hegel. La filosofia è il linguaggio dell’Occidente, costituisce la forma del suo sapere e del suo agire, fornisce i concetti fondamentali per intenderne l’inquietudine, le tragedie e la stessa follia».
Crede ancora, come ha detto in passato, che il massimo delle potenzialità cerebrali si tocchi a 26 anni?
«Se a quell’età hai davvero viaggiato, hai fatto tutto o quasi. Parlo non dei viaggi da turista, ma della mente. Li fai e poi, nel resto della vita, li organizzi, li approfondisci, ma le idee fondamentali nascono da giovani. Perciò è peccaminoso come sia stata ridotta la scuola».
Lei aveva 24 anni nel ’68. Ha fatto occupazioni con gli operai, ha fondato riviste, come «Contropiano», «Laboratorio Politico»...
«Ho iniziato a fare politica a 15 anni, mi sono formato, anche intellettualmente, con Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri, poi ho fatto il dirigente del Pci... Oggi non ci sono movimenti paragonabili. L’era digitale individualizza tutto nell’apparenza della agorà universale; noi ci mettevamo insieme, facevamo società».
Lei che cosa sognava?
«Io non ho mai sognato. Quando sogni, sogni. Poi, ti svegli e pensi a cosa puoi effettivamente fare. In quel ‘68, mi sembrava possibile un’azione all’interno del sindacato e del Pci per porre le basi di una riforma di sistema. Alcuni di noi, invece, presero strade diverse: credevano si aprisse un processo rivoluzionario... Sono cose quasi impossibili da capire oggi. Comunque, la divisione fra lotta rivoluzionaria e riformismo, il delitto Moro, la fine del compromesso storico spiegano il trentennio successivo, il logoramento del ceto politico».
Fu mai tentato da derive rivoluzionarie?
«Mai. Né io né Mario né Asor. Ma ci trovammo stretti fra i partiti della sinistra incapaci di capire il salto d’epoca e, dall’altra parte, l’irrazionalità, i sogni appunto».
«Élite e popolo» è una contrapposizione utile a interpretare i tempi che viviamo?
«È un’idiozia: il popolo in sé non esiste; esistono interessi specifici, corpi intermedi, autonomie. L’ideologia del rapporto diretto fra il capo e la massa è la via maestra a soluzioni autoritarie. La democrazia vive di mediazione. È politeistica nella sua essenza. Il leader deve essere a guida di un gruppo dirigente di persone competenti, con base sociale e voti loro».
Le manca la politica attiva?
«Inascoltato, ho cercato di dare una mano alla formazione di un Pd mai nato. Dopo, non ho mai pensato di ricandidarmi: o sei interno a una struttura coerente con ciò che pensi, o non puoi fare da solo. Da solo, puoi scrivere un libro, non fare politica».
Quanto è solitaria la vita dello studioso?
«Io, quando studio, sono con i miei autori e maestri, parlo con loro. Quando posso ritirarmi una settimana a Venezia nel mio studio fra trentamila libri è qualcosa di molto bello».
Cos’è il «logos incarnato» che don Verzé diceva d’averla chiamata a insegnare?
«È il pensiero che s’incarna. Il pensiero è azione, è la prima e fondamentale delle forme del nostro fare. Nulla è producibile che non sia pensato. Se nella civiltà europea si è sviluppato un pensiero scientifico di un certo tipo, è anche perché, nella sua tradizione, rimane fondamentale quel prologo del vangelo di Giovanni in cui è detto che il Logos si fa carne. Lì è una rivelazione religiosa, ma lo stesso principio vale anche per la filosofia dell’Occidente».
Quando il Censis rileva un diffuso sentimento di cattiveria, il filosofo che pensa?
«Non si stupisce. Legga Spinoza. La nostra natura è “captiva” in senso letterale, prigioniera di passioni tanto più praticate quanto più deprecate: invidia, gelosia, risentimento, avarizia... La filosofia è l’esercizio di governarle».
Quali di queste passioni hanno afflitto lei?
«Nessuna, il padreterno me ne ha donato la totale assenza».
Per cosa vorrebbe essere ricordato?
«“Krisis”, del ’76, ha forse avuto una certa influenza. Ma tengo molto più a “Dell’Inizio”, che è del ’90, sviluppata in opere successive. Ritengo abbastanza importanti le cose scritte negli anni ‘90 sull’Europa, quando era ancora un principio-speranza».
E oggi cos’è L’Europa?
«Una speranza senza speranza. Ma insegna San Paolo bisogna sperare e, insegna Leopardi, dis-perare è impossibile: persino il suicida spera, magari di far disperare chi resta».
Ha avuto solo due fidanzate note, ma ha fama di piacere molto. Come mai?
«Io questo non l’ho mai constatato».
Perché non si è mai sposato?
«Bisogna aver letto Nietzsche per capire cosa significa dire di sì, quando chiede: hai scavato il fondo della tua anima? Sei pronto a dire “per sempre”? Vale anche per essere padre; infatti, non ho avuto figli».
Ha mai avuto il dubbio di sposarsi o no?
«Tutte le volte che ho amato».
E quante volte ha amato?
«È impossibile a dirsi... Dire amore è come dire popolo: ogni volta, è una cosa diversa».
Al pettegolezzo che la voleva amante di Veronica Lario in Berlusconi, rispose di non conoscerla. Le è poi capitato d’incontrarla?
«Mai. Né prima né dopo».
Le piaceva Crozza quando la imitava?
«Era grosso e grasso. Non mi assomigliava».
È vero che si taglia barba e capelli da solo?
«Certo, e temo si veda. Non ho tempo da perdere col barbiere».
Si dice che sia superstizioso, in cosa?
«Lo sono un po’ per ridere, un po’ no. Su alcune teorie e pratiche che cataloghiamo come superstizioni, bisogna essere però molto seri. Si tratta di straordinarie tradizioni. Prenda l’astrologia: fino al ‘500 o ‘600 non c’era un potente che non si facesse fare l’oroscopo».
Si ritrova nel segno dei Gemelli?
«Totalmente: è una disperazione. Una concordia oppositorum continua».
Un’altra superstizione?
«I tarocchi. Uno che, come me, studia Umanesimo e Rinascimento, come fa a non conoscerli? Mi sono anche divertito a farli, me la cavavo, ma ripeto: li ho studiati per i miei libri».
L’ultimo, «La mente inquieta», è appunto, un saggio sull’Umanesimo.
«È un’epoca di cui tutti conoscono i capolavori dell’arte, ma che ha pensatori grandissimi, come Pico della Mirandola, e che, a volte, sono massimi artisti, come Leon Battista Alberti. Autori che affrontano una grande crisi religiosa e politica. Anche filosofi successivi, come Giordano Bruno o Giambattista Vico hanno stretti rapporti con questo periodo. Bertrando Spaventa e Giovanni Gentile sono stati i primi a rivendicare questa tradizione».
Citando Nietzsche, ha detto: io sono un uomo postumo. In cosa spera che le verrà dato ragione da postumo?
«Scherza? Questa citazione non me la sono mai attribuita. Si figuri se sono così snob».