Corriere della Sera, 21 aprile 2019
I giardini di Oliver Sacks
Dovunque fosse, Oliver Sacks cercava un giardino. Per sé e per i suoi pazienti. «In 40 anni di pratica clinica, ho trovato soltanto due tipi di “terapie” non farmacologiche che fossero certamente di vitale importanza per le persone con malattie neurologiche croniche: la musica e i giardini». La ricerca del verde valeva anche per lui, neurologo-raccontatore scomparso a 82 anni nel 2015: «I giardini sono essenziali per il mio benessere e per il processo creativo», scrive Sacks in un piccolo saggio pubblicato in anteprima dal New York Times, tratto dalla raccolta che uscirà martedì prossimo in America. Il titolo: «Ogni cosa al suo posto: primi amori, ultime storie». Tra gli amori di lunga data, l’autore de «L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello» e di tanti saggi tradotti in tutto il mondo cita la natura e in special modo gli orti botanici. I primi nel ricordo sono i Kew Gardens di Londra, con le grandi foglie dei gigli d’acqua (Victoria Regia) dove sua madre e zia Len lo mettevano a sedere da piccolo.
Una vita raccontata attraverso i giardini più amati: da quello di Oxford all’Hortus Botanicus di Amsterdam ai garden di New York, la città dove Sacks ha vissuto per 50 anni, alle oasi nel deserto. Una menzione speciale è riservata all’Orto Botanico dell’Università di Padova, «che risale al 1545: qui gli europei posarono per la prima volta lo sguardo su piante provenienti dalle Americhe e dall’Oriente, con le forme più strane che si potessero immaginare». Il neurologo-scrittore racconta della palma che diede a Goethe lo spunto per l’intuizione evolutiva del «Saggio sulle metamorfosi delle piante», pubblicato nel 1790. Quella palma di S. Pietro (alias palma nana) è la più vecchia dell’Orto di Padova: fu messa a dimora nel 1585 ed è lì ancora, viva e vegeta. Quanti di noi l’hanno vista?
I giardini producono metamorfosi benefiche nel nostro organismo: Sacks se ne convinse osservando le reazioni delle persone fragili, che sono spesso un termometro fedele della nostra umanità più profonda. «Quando lavoravo all’ospedale Beth Abraham, dall’altra parte della strada c’era il Botanical Garden. Scoprii che niente era desiderato dai lungodegenti più che passare qualche minuto nel verde. Ne parlavano come di due mondi diversi: l’ospedale e il giardino». Sacks ricorda un’anziana signora con il Parkinson incontrata a Guam, incapace di fare il primo passo: «Ma se la si portava in giardino, tra piante e rocce, come galvanizzata partiva da sola su per il pendio». Oppure i suoi pazienti con l’Alzheimer, che non erano più in grado di allacciarsi le scarpe o di usare le posate. «Ma se gli mettevi davanti un vasetto e qualche seme, sapevano esattamente cosa fare. Non ho mai visto un paziente seminare una piantina all’incontrario». E se anche fosse, il senso di benessere sarebbe comunque assicurato. Anche per i sani: «Il ruolo curativo della natura è cruciale per le persone che lavorano ore ed ore magari in ambienti senza finestre, in quartieri o in scuole o in case di riposo senza accesso al verde. Gli effetti non sono solo spirituali ed emotivi, ma anche fisici e neurologici», scriveva Sacks sul finire della vita. «Non ho dubbi che essi riflettano profondi cambiamenti nella fisiologia del cervello, e forse persino nella sua struttura». Gli studi più recenti vanno in questa direzione. E se persino gli smartphone possono influire sui circuiti neurali della nostra mente, figuriamoci una foglia di giglio gigante o la palma nana di Goethe.