La Stampa, 21 aprile 2019
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Biografia di Lucio Dalla
Fin quando non lo incontravi di persona non ti rendevi conto di quanto fosse piccolo. Ma ti accorgevi nello stesso momento che era un vulcano di energia, e ogni cosa passava in secondo piano, a cominciare dalla statura, il corpo incredibilmente peloso, lo sguardo stanco e stralunato, l’improbabile parrucchino.
Era un folletto geniale, un clown senza maschera, un poeta impaurito, che aveva capito quanto fosse deleterio prendersi troppo sul serio. Ed era un uragano di divertimento, generosità e lucida follia. Isabella Rossellini minacciò di togliermi il saluto se non l’avessi avvertita quando veniva a New York: «Ogni volta che lo incontro rimango di buon umore per una settimana». Di tutti gli amici artisti, Lucio Dalla è colui con cui ho condiviso le risate più belle e spensierate, e, soprattutto, il piacere del gioco. Parlava raramente di sé, erano le sue canzoni a farlo, come le scelte quotidiane, segnate sempre da una profonda libertà intellettuale. Era profondamente religioso e amava le liturgie dell’ortodossia cattolica: «Aiutano a sentirsi dentro la storia», mi disse una volta, e poi aggiunse «anzi a casa». Lo avevo conosciuto grazie a Eugenio D’Andrea, un caro amico che era diventato il suo avvocato: Lucio lo chiamava «lampione» per via della statura molto alta, e lo considerava un punto di riferimento per ogni scelta delicata. Il vezzo dei soprannomi era un modo di trovare la leggerezza in ogni cosa ed esorcizzare la vita: il nome della sua barca era Catarro e i marinai Furetto e Compare. Sul citofono della sua splendida casa di Bologna c’era scritto Domenico Sputo: Lucio giurava che si trattava di un impresario calabrese con cui aveva lavorato all’inizio della sua carriera, e faceva il verso alla sua parlata. Trucido era il modo in cui si divertiva a sfottere l’amatissimo Michele Mondella, e l’esagerato era un amico che vagava per le strade di Bologna sino all’alba. Anche Lucio aveva un soprannome: ragno, ma solo in pochi potevano permettersi di utilizzarlo.
Una passione per i riti
L’estate passava a trovarci con la barca a Maratea, e rimasi colpito che andasse a messa alle sette del mattino nella chiesa del porto. La fede era una cosa da vivere con naturalezza, con gioia, persino con ironia: la passione per i riti lo portò ad assistere alla festa di Sant’Agata a Catania, ma l’incredibile ressa lo spinse fin sopra l’altare, dove si trovò quasi a concelebrare con il cardinale, esterrefatto e divertito. Era convinto che non esistesse una persona stonata e un giorno sostenne che i migliori cantanti non professionisti che avesse mai sentito fossero Silvio Berlusconi e il vescovo Milingo. Aveva cantato con entrambi, perché non c’era volta che si tirasse indietro quando gli veniva chiesto di esibirsi. Una sera ci commosse cantando in barca Not
te, una delle sue canzoni più belle e sconosciute, invitandoci poi a esibirci: noi ci vergognavamo, ma era così spontanea, la situazione, così calda, che finimmo per storpiare canzoni bellissime, a dispetto della sua teoria che ognuno sia in realtà intonato.
Era a Maratea anche la sera in cui l’Italia vinse i mondiali di calcio. Esultò come un bambino per la vittoria sulla Francia, e volle festeggiare invitando in barca anche i nostri figli. Ma il ricordo più bello di quella sera è come reagì a uno striscione apparso durante un collegamento con Napoli, dove la gente era scesa a festeggiare. C’era scritto «e adesso ridateci la Gioconda», e a Lucio vennero le lacrime agli occhi dal divertimento: amava Napoli e i napoletani come niente al mondo per la perenne fusione di miseria e nobiltà. Considerava Maradona un artista, e una volta gli chiese come riuscisse a giocare così bene senza allenarsi. Il campione gli disse «io non sono un calciatore ma un giocatore», ed era qualcosa che poteva applicarsi anche a lui: Lucio gli regalò un rosario d’oro, come faceva solo con gli intimi. Si divertiva a usare espressioni surreali, e non ho ancora capito cosa intendesse quando diceva «vestito come uno svizzero».
La ricerca di calore
Amava credere alle proprie bugie e non aveva paura della goliardia: ogni tanto richiamava l’attenzione solo per fare una pernacchia. L’eclettismo era uno dei segni più evidenti della sua libertà: non aveva alcun timore di prendere posizioni controcorrente, ed era alla continua ricerca di qualcosa che soddisfacesse un appetito insaziabile. Ma era calore, quello cui anelava: «cerco l’amore in Piazza Grande» è uno dei suoi versi più dolenti, come «avrei bisogno di carezze anch’io». Faceva impressione, per una persona amata da milioni di fan.
Una volta costrinse Eugenio a chiedere al padre chirurgo di farlo assistere a un’operazione al cervello: era affascinato che si potesse intervenire sull’organo dal quale nasceva la ragione. Era stata la fede ad aiutarlo a dipanare i fili del mistero dell’esistenza, ma la scienza lo entusiasmava, ed era curioso di tutto, a cominciare dai siti archeologici. Le sue passioni erano estreme, come nel caso del basket o delle automobili: guidava velocissimo, terrorizzando chi faceva l’errore di viaggiare con lui. E amava le case, un altro segno della ricerca di calore: ne aveva una alle pendici dell’Etna, vicina a quella di Franco Battiato, di cui era grande amico, e una nelle isole Tremiti. Il primo requisito è che fossero lontane da ogni mondanità, e fu sul punto di acquistarne una in Cile. Poi si innamorò di New York, e sono stato tra le vittime di interminabili visite ad appartamenti in ogni parte della città: un po’ giocava, un po’ si illudeva di trovare qualcosa che lo appagasse sino in fondo.
Nulla però lo rendeva felice come il poterti accogliere nella sua Bologna: si entusiasmava guardando le frecce rimaste infilate dal duecento in un soffitto di legno del portico della Strada Maggiore. «Sono lassù da ottocento anni», ripeteva incredulo, e poi ti faceva ammirare, in silenzio, il Compianto di Cristo Morto. «Niccolò dell’Arca era un zenio», spiegava con inflessione bolognese, e la g lasciava il posto alla z. Lo diceva con una punta di rabbia: non si capacitava che la sua fama fosse inferiore «a tanti pistola: ma questa è la norma nell’arte». Quello straordinario gruppo scultoreo immortala una morte prima della resurrezione, ma il suo incanto era pieno di serenità, e una sera improvvisò un brano musicale mentre Davide Rondoni recitava alcuni versi sulla redenzione.
Pazzo per la tecnologia
Era fissato con gli ultimi ritrovati tecnologici, sia che fosse l’iPhone o lo schermo ad alta definizione che continuava a sostituire nella sua sala di proiezione privata. Vedeva i film con l’adorato compagno Marco, o con pochi amici fidati, come Stefano Bonaga: Cara è ispirata a una sua storia d’amore. Gli ultimi tempi aveva cominciato a scrivere opere liriche ma non tradiva le canzoni, sapendo che la vera arte è indipendente persino dal suo creatore. Quando cantava Anna e Marco si emozionava come se fosse stato qualcun altro a creare la stella di periferia che avrebbe voluto morire e il suo lupo che voleva andarsene lontano. Ma era lui, Lucio, che li aveva visti tornare tenendosi per mano.