il Giornale, 21 aprile 2019
Calenda elogia lo «schiaffo educativo»
Se non ci fossero le cronache di questi giorni a ricordare che quella delle violenze sui bambini in Italia è una piaga inguaribile, si potrebbe dedicare la Pasqua a un nuovo gioco: e una parte dei diritti d’autore dovrebbero andare a Carlo Calenda, ex ministro dello Sviluppo e aspirante eurodeputato, che ieri ha sdoganato il ceffone come strumento educativo.
Il nuovo gioco sarebbe il seguente: studiare accuratamente le performance dei vip dei nostri tempi, e indovinare se appartengono alla categoria di quelli che da bambini ne hanno prese troppe, o al club di quelli che ne hanno prese troppo poche. Alla fine indovinare non sarebbe difficile: perché chi ne ha prese troppe vive nell’ansia di dimostrare se stesso, di riaffermarsi davanti al mondo, di far dimenticare l’impronta rosseggiante delle cinque dita paterne sulla sua guancia di bambino. Matteo Renzi, per fare un esempio, qualche robusto scappellotto da babbo Tiziano deve averlo ricevuto; e pure Beppe Grillo ha probabilmente qualche cinquina di troppo nel suo curriculum. All’opposto, chi ne ha prese troppo poche si aggira per il mondo con l’aria di chi pensa che tutto gli sia dovuto: perché se non lo hanno messo in discussione i suoi genitori, che diritto ha l’umanità di non ammirarlo incondizionatamente? Leader indiscusso della categoria è indubbiamente Massimo D’Alema, ma anche Massimo Cacciari ha l’aria di uno cui da bambino, se faceva qualche disastro, la mamma invece di una sberla rifilava un capitolo dei Grundrisse. Alfano è uno che ne ha prese troppe. Fini uno che ne ha prese troppo poche.
Carlo Calenda appartiene indubbiamente alla seconda specie. D’altronde chi potrebbe immaginare una donna delicata e problematica come Francesca Comencini, scrittrice e regista, risolvere a colpi di manrovesci le discolerie del piccolo Carletto? Calenda è cresciuto sereno e intonso, all’ombra di cotanta mamma, convinto di essere destinato all’amore del mondo. E così la sua imprevista predicazione a favore della sberla assume tutt’altra autorevolezza. Non parla per esperienza diretta, non dice che sono stati gli schiaffi a fare di lui il figaccione che è. Ma spiega che per gli altri, per i comuni mortali, lo schiaffone al momento giusto è un elemento fondante della crescita, un rito di formazione.
La sua uscita ieri si consuma in un valzer di tweet, in risposta a un cinguettio di Giuliano Ferrara. Ferrara, dopo avere visto il figlio di Calenda in corteo con Greta Thunberg, auspica una cura di schiaffi. E Calenda invece di difendere il pargolo rivendica di avere già provveduto per tempo, «almeno due volte al giorno». Ieri, aggiunge, «per l’appunto si è beccato un bel ceffone per aver risposto male alla madre. E gli ha fatto un gran bene». Variazione sul tema: «Ogni tanto anche un bel calcio nel sedere funziona ma dà meno soddisfazione». Apriti cielo, ovviamente. Sui social l’ira dei montessoriani si abbatte su Calenda, trattato alla stregua di un sadico pervertito. Tanto che lui deve cavarsela in corner, cioè scherzando: «E ora scusate ma devo andare a picchiare i figli, distruggere videogiochi e rubare uova di Pasqua».
Peccato, perché l’outing di Calenda a favore delle punizioni corporali apriva prospettive di dibattito interessanti. Un buon ceffone non ha mai fatto male a nessuno, come è noto: e anzi, come nel caso di D’Alema, a fare danni è stata semmai la scarsità di schiaffi. Ma ci sono ceffoni e ceffoni: c’è il ceffone d’impeto e il ceffone meditato, lo schiaffo pubblico e quello privato, e ognuno di questi sottogeneri andrebbe analizzato nei suoi impatti sulla storia del paese. Il dibattito è aperto.