Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2019
Fenomenologia del rosicone moderno
Per tradurre la parola tedesca Schadenfreude ne servono fino a undici italiane: la gioia che si prova di fronte al dolore degli altri. Potremmo fare altri esempi, sempre dal tedesco: Mitlaufer è una persona che cammina quando l’altro cammina; Zweisamkeit è la condizione di solitudine che si prova (non sempre, si spera) persino se si è parte di una coppia. Tutte parole composte intraducibili, di fatto, proprio perché non sono parole, bensì porte su mondi immaginati o reali.
Il tedesco ne ha tantissime ed è per questo che se per farsi capire con discreta efficacia in inglese bastano circa mille vocaboli, ne occorrono almeno cinque volte tanto in Germania. Salvo scoprire che il vocabolario della lingua inglese è assai più ricco di quello tedesco, ma questa è un’altra storia e ognuno può decidere quale delle due sintesi lessicali sia più adatta a esprimere idee e pensieri. L’inglese, potremmo dire, aiuta a farsi capire in fretta e offre a pochi eletti la possibilità di un eloquio davvero erudito. Il tedesco chiede uno sforzo iniziale maggiore – 5mila parole invece di mille – ma a quel punto si può avere accesso ai giardini segreti di pensatori e letterati come Immanuel Kant, Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud e persino Goethe.
Torniamo però alla parola Scha denfreude, perché Tiffany Watt Smith ha scelto di tradurla con sei parole inglesi (The joy of another’s misfortune, nella versione originale del suo saggio, pubblicato nel Regno Unito nel 2018) e altrettante italiane (La gioia per le disgrazie altrui, appena uscito per Utet). Il titolo non è una metafora: alla parola la studiosa ha dedicato l’intero libro. Perché se è vero che nessuna lingua conosciuta ha un equivalente al termine tedesco, è altrettanto vero che la sensazione di gioia, più o meno intensa, di fronte a una piccola o grande sfortuna altrui è comune all’intero genere umano.
In Giappone ad esempio, altra lingua ricca di espressioni intraducibili, non si è voluto premiare questa sensazione dedicandole una parola, equivale in fondo a nobilitarla, ma esiste un proverbio altrettanto efficace: «La sfortuna degli altri è come il dolce miele». Non stupisce l’interesse di Tiffany Watt Smith per la Schadenfreude: il sottotitolo del suo precedente volume, l’Atlante delle emozioni umane, era «156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai».
L’autrice è una storica culturale (insegna alla Queen Mary University di Londra), ma potremmo definirla una detective dell’animo umano, più che una psicologa o sociologa. Esaminando testi letterari, fatti di cronaca, studi di psicoanalisi, ci apre il mondo della Schadenfreude, che ognuno interpreta a suo modo. Per qualcuno può essere un’emozione autenticamente piacevole, gratificante; per altri è abbinata a immediato senso di colpa o inadeguatezza. Ad alcuni può sembrare una profezia che si avvera: se si è stati costretti ad ascoltare persone vanesie al limite della mitomania, spesso capaci di affascinare parte degli interlocutori, inevitabile pensare (o dire), quando questi dovesse cadere in disgrazia: ecco, visto, l’avevo detto io che era un bluff.
Accade magari anche tra due avversari politici: se uno perde consensi dopo averli guadagnati sostenendo una buona causa, che al secondo era mancato il coraggio di abbracciare, in caso di fallimento, il pavido proverà soddisfazione e magari gli scapperà pure un «avevo ragione io, era una causa persa». Quando in realtà tutto nasce da invidia per qualità che si sa di non possedere. Non a caso Nietzsche parlava di «vendetta dell’impotente» per spiegare il significato di Schadenfruede, mentre per Schopenhauer era «l’indizio più infallibile di un cuore profondamente cattivo».
Attenzione però a relegare la parola al passato o a cercarne esempi nella letteratura e nella saggistica dei secoli scorsi: abbiamo inventato neologismi come online haters, leoni da tastiera, webeti. Ma volendo capire cosa scateni tanto odio e aggressività sul web forse basterebbe la parola Schadenfreude. Aggiungendo 4.0: nella stragrande maggioranza dei casi internet e i social network permettono di dare libero sfogo a quel misto di frustrazione-delusione-invidia-cattiveria-complesso di inferiorità che fa gioire per le difficoltà altrui.
Ma se nel mondo reale la Schadenfreude può sembrare umana, troppo umana, per citare ancora Nietzsche, in quello digitale assume la freddezza e la crudeltà di un robot, che ci ricorda l’Al di Odissea nello spazio. L’antidoto? L’ironia e l’autoironia, per non diventare haters e per difendersi dagli haters. La Schadenfreude divide, tira fuori il peggio di noi. Sorridere o far sorridere riconcilia, unisce in una liberatoria risata. Aveva ragione Orwell, sempre citato da Tiffany Watt Smith, quando diceva «ogni battuta è una piccola rivoluzione».