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 2019  aprile 21 Domenica calendario

Quando Marcel Proust vinse il Premio Goncourt

Quando la zia aveva venduto improvvisamente l’appartamento dove abitava, Marcel Proust aveva dovuto decidersi a traslocare in rue Laurent Pichat, una piccola traversa sinuosa e elegante della sfarzosa Avenue Foch. Esausto, non riusciva a riaversi dalle fatiche dello spostamento. «Il trasloco mi aveva già ucciso per tre quarti, la casa ha consumato l’ultimo quarto. È vicino al Bois, il che mi ha fatto venire l’asma del fieno». Alla fatica si aggiunsero vari rumori che attentavano alla sua quiete. 
In ottobre, stanco di quei problemi si era trasferito in rue Hamelin, a pochi passi dall’Arc de Triomphe. L’autore più raffinato del suo tempo non cercava la bellezza, ma la tranquillità e il silenzio: «A vent’anni ho capito che le case, belle o brutte, per me sono lo stesso». Tuttavia non esitava a definire il suo nuovo alloggio, al quinto piano senza ascensore, «un ignobile tugurio in cui entra appena il mio giaciglio». Non erano solo lamentele; per trasferirsi in quell’alloggio più piccolo lui, così attaccato ai mobili impregnati del suo passato, aveva dovuto rinunciare a molte cose. Ma la disposizione dei mobili nella camera più importante della casa, la sua, era rimasta identica. Il letto d’ottone in cui Marcel aveva riposato fin dall’infanzia, era disposto in modo da osservare l’ingresso dei visitatori. Lì accanto c’erano i tre tavolini con gli strumenti indispensabili di quell’eremita mondano: la polvere antiasmatica, una pila di fazzoletti, gli occhiali e un orologio. Sull’ultimo, soprannominato «la scialuppa», si mescolavano mucchi di libri e di carte. 
Posseduto dal lavoro e dalla sensazione della fine imminente, Proust stava talmente male che doveva rimanere sempre sdraiato. Ormai usciva di rado. «Il tempo stringe, Céleste...» ripeteva alla cameriera. Ma in quella corsa contro la morte si era inserita una variabile imprevista. Malgrado le poche, distratte recensioni di All’ombra delle fanciulle in fiore, era stato fatto il suo nome per uno dei premi più prestigiosi di Francia, il Goncourt. Non era un’impresa facile; gli ex-combattenti della prima guerra mondiale premevano per essere riconosciuti. Come se non bastasse, il premio era destinato ai giovani mentre Proust aveva quarantotto anni. «Alla mia età, deprecava, sono più sconosciuto di tanti debuttanti». Inoltre i 5000 franchi del Goncourt erano pensati per un giovane bisognoso, mentre Proust veniva visto come un ricco dilettante. «È comico che, nel momento in cui sono non del tutto, ma in gran parte rovinato, la mia “fortuna” sia un ostacolo!».
All’inizio sembrava che il Goncourt sarebbe andato a Roland Dorgelès, un trentenne che aveva dedicato alla sua esperienza bellica un romanzo, Le croci di legno, apparentemente perfetto per il premio. Ma a sostenere Proust si era levato il figlio di un autore famoso, l’ultrareazionario e antisemita Léon Daudet, una figura eccentrica, «la cui follia politica – spiega Walter Benjamin – è troppo goffa e limitata per poter nuocere molto al suo mirabile talento». Dopo un’iniziale incertezza, l’irruente Daudet, giurato del premio, si era votato all’impresa. Proust oscillava tra ansia e speranza, inondando amici e sostenitori di lettere straripanti. 
Il 10 dicembre 1919 i giurati del premio si riunirono come al solito al secondo piano di un celebre ristorante, Drouant. Mentre scorrevano le portate – rognone, pollo alla diavola, ostriche innaffiate dallo champagne – venne faticosamente decretata la vittoria di Proust. Gli editori ansarono salendo i cinque piani di rue Hamélin e dovettero aspettare che Proust fosse in grado di riceverli, interamente vestito, ma allungato sul letto. La stampa reagì male alla notizia, ci fu chi intitolò: «Largo ai vecchi!», chi derise quel “giovane” letterato di cinquant’anni e chi gli rinfacciò di descrivere un mondo ormai scomparso.
Tornato alla sua reclusione, Proust era rimasto sorpreso quando aveva saputo che, malgrado lo scandalo sollevato da Sodoma e Gomorra, si era fatto il suo nome per il Nobel. «Sono stupito di scandalizzare così poco».
Una sera il suo autista andò a prendere sul suo vecchio taxi uno dei giurati del premio, J.-H. Rosny. Entrato nella camera da letto dello scrittore, Rosny venne come al solito subissato di complimenti esagerati. Vedendo sul tavolo un’imponente sogliola, un grosso pollo, una grande torta e dell’uva stupenda, l’ospite si chiese come avrebbe fatto a mangiare davanti a quell’uomo che si limitava a sfiorare il cibo. Inoltre l’atmosfera sepolcrale non era fatta per stimolare l’appetito. Mentre lui cercava di fare onore alla cena, Proust tornò più volte sulla struttura della Ricerca del tempo perduto: «Tutto converge verso un’unità che sarà riconoscibile quando l’opera sarà finita». E nella parola “finita” si sentiva il fremito del malato che temeva di morire prima di avere concluso il suo lavoro. 
Quando Rosny, temendo di stancarlo, aveva accennato ad andarsene, l’aveva fermato: «Vi prego, non andatevene ancora. Stasera sto straordinariamente bene, respiro!... ci sono dei giorni... resto per ventiquattro ore come se mi avessero chiuso in una valigia». Quindi si erano spostati sugli eterni problemi. «Dio, aveva detto Proust, è esistito... molto tempo fa... poi è morto. Da allora l’universo è sfasato... i meccanismi cedono... l’immensa macchina funziona sempre più penosamente... la parte del male aumenta...». Poi era riandato alla sua ossessione: «Credo che finirò. Ne ho il presentimento... lo sento... ho dei segnali. È superstizione e tuttavia!...».