Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2019
Alle origini della scelta vegetariana
Fra le pratiche alimentari, svariatissime per epoca, area geografica ed economica, predilezioni personali, quella vegetariana appare oggi sempre più diffusa e soggetta a declinazioni diverse: vegetariani, vegani, vegetaliani, crudisti, crudiv eganisti, fruttisti o fruttaristi… sono sempre più numerosi e convinti (talora aggressivamente), contando per di più fra loro personalità di grande spicco internazionale. Non è questa, tuttavia – per loro stessa dichiarazione – la ragione che ha spinto Chiara Ghidini e Paolo Scarpi a concepire la documentata trattazione offerta dal loro La scelta vegetariana, da poco uscito per Ponte alle Grazie. Gli autori sono l’una specialista di religioni e filosofie dell’Asia Orientale, l’altro di storia delle religioni con uno sguardo privilegiato (anche) al cibo e all’alimentazione; le loro specializzazioni, sempre vissute con grande apertura culturale, illuminano in se stesse la motivazione e la prospettiva adottate sull’intrigante argomento prescelto: «… le fonti,… hanno lasciato trasparire come il consumo di vegetali anziché di carne, in una parola il vegetarianismo sensu latu, sia stato il frutto di una scelta consapevole,… che è quasi sempre espressione di una dimensione religiosa». L’altra prospettiva, difficilmente contestabile, che impronta il volume è espressa dal sottotitolo: Una breve storia tra Asia ed Europa.
E infatti il vegetarianismo risulta attestato per la prima volta come pratica consapevole, più o meno contemporaneamente in Asia e in Europa, non prima della metà del VI secolo a.C. e legato a due figure straordinarie come quelle del Buddha e di Pitagora. Almeno nell’idea diffusa, il primato è asiatico, indiano per esattezza: anche se – come rileva opportunamente Ghidini, ampiamente motivando – il vegetarianismo del Risvegliato e dei suoi primi seguaci non è accertato con sicurezza definitiva, è certo invece che il suo messaggio di non-violenza e di compassione per tutti gli esseri senzienti, e perciò sofferenti, ha orientato in modo decisivo la scelta vegetariana. Alla quale ha poi potentemente contribuito l’adesione al buddhismo del grande imperatore Ashoka Maurya (verosimilmente sul trono dal 268 a.C.) che, in uno dei suoi celebri editti, annuncia la decisione di limitare drasticamente e poi di abolire l’uso della carne nella propria alimentazione. Più o meno coeva, e attestata da Platone con toni di ammirazione nostalgica, è la consuetudine vegetariana praticata da orfici e pitagorici di cui tratta Scarpi con ricchezza di testimonianze; fra queste l’affermazione di Cicerone secondo la quale per Pitagora (ed Empedocle) «tutti gli esseri viventi hanno uguali diritti». Mentre il neoplatonico Porfirio (234 d.C-inizi IV sec.) attribuiva agli «uomini dabbene», che riflettono sopra se stessi, la convinzione che «gli animali comprendono il linguaggio degli uomini e posseggono anche una ragione». Non per questo Porfirio ignorava la posizione contraria al vegetarianismo di aristotelici, stoici ed epicurei… L’intenzionale cortocircuito con cui sono state messe qui a confronto opposte posizioni, tutte rappresentate da sostenitori di altissimo profilo culturale e spirituale, giova a comprendere il contrasto, anche accanito, acceso fin dall’antichità classica intorno alla scelta vegetariana.
Non solo: i nomi di Buddha, Pitagora e Platone evocano immediatamente la connessione fra vegetarianismo, dottrina delle rinascite, che di per sé sconsiglierebbe il consumo di carne, e comunque dimensione spirituale. Così Ermete Trismegisto invitava a «non ucccidere gli animali per non costringere le loro anime ad attaccarsi ancor più ai corpi» abbandonati a forza «in seguito alla violenza subita». La diffusione del cristianesimo apre evidentemente nuove visioni, insospettabilmente tutt’altro che univoche. Se il Vangelo di Marco autorizza il consumo di ogni possibile alimento in quanto «tutto ciò che entra nell’uomo dall’esterno non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna», non per questo gli asceti di epoca più antica e i primi monaci rinunciavano a praticare sistematicamente il digiuno e ad astenersi dalle carni. Tali posizioni antinomiche avvenivano fortunatamente senza reciproco astio.
Diverse sono state invece le sorti dei catari (i “puri”?) o albigesi (dal loro centro principale, Albi), i quali esercitavano il rifiuto della procreazione e del consumo di cibi di origine animale: questi loro comportamenti, infatti, erano giudicati sintomi di eresia, non senza l’uso da parte degli inquisitori di sottigliezze teologiche ed etiche intese a distinguerli dai monaci inclini allo stesso comportamento per scelta spirituale. La fine tragica degli albigesi è nota, sterminati in Occitania nel 1229 per volontà di Innocenzo III, poi in Italia nel1277. Dietro le loro scelte di vita, si affacciava infatti la posizione manichea, fortemente avversata come eresia per la concezione dualista secondo la quale «tutto ciò che è visibile, mondo compreso» è stato creato dal demonio.
Gli autori proseguono con grande competenza e ricchezza di elementi storico-(religiosi) e sociali la storia del vegetarianismo e delle sue diverse forme: fra trionfi della dieta carnea, utopie (come quella emblematica di Tommaso Moro, 1478-1535), stupore di viaggiatori europei (Marco Polo!) e ritorni a Pitagora, zen, controcultura e “labirinti della rete”. Quindi fino ai giorni nostri: il movimentato percorso è davvero interessante, anche per la prospettiva assolutamente imparziale mantenuta da Ghidini e Scarpi con ammirevole equilibrio.