Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2019
I diecimila che ripuliscono il fiume di Los Angeles
Non molti sanno, in Italia, che Los Angeles è attraversata da un fiume. Ci sono buoni motivi, anzi cattivi, per tale scarsa notorietà; ma prima di arrivarci parliamo di com’era una volta, e non è più, e vorrebbe essere ancora. Il Los Angeles River ha una lunghezza di oltre ottanta chilometri (per dare un’idea, è più lungo del Sele e del Mincio); nasce vicino alla cittadina di Canoga Park, nella San Fernando Valley, a nord di Los Angeles, e sfocia a Long Beach. Quando gli spagnoli arrivarono da queste parti, il fiume era al centro della vita degli indiani Tongva (oggi praticamente estinti), che vi affacciavano quarantacinque dei loro villaggi e ne traevano acqua e nutrimento. Vi si pescavano trote e salmoni; vi si riflettevano ontani, sicomori e salici; intorno si aggiravano orsi (l’orso grizzly, per chi non se lo ricordasse, è l’animale simbolo della California). I primi bianchi a vederlo furono i membri della spedizione condotta da Gaspar de Portolà, governatore della zona; il 2 agosto 1769 Juan Crespi, uno dei due frati al seguito della spedizione, lo denominò El Rio de Nuestra Señora de los Ángeles de Porciúncula (i frati erano francescani; per loro la Porziuncola rivestiva un particolare significato). Il pueblo detto de Nuestra Señora la reina de los Ángeles, primo nucleo della metropoli, fu fondato nel 1781; quindi è lecito pensare che sia stato il fiume a dare il nome alla città, non viceversa.
Fino all’apertura dell’acquedotto nel 1913, l’L.A. River (abbreviazione automatica, per i residenti) fu la fonte principale d’acqua per il bacino di Los Angeles; ma si trattava di un fiume indisciplinato e imprevedibile, che causava inondazioni (catastrofica quella del 1938: provocò un centinaio di morti, la distruzione di millecinquecento case e l’estromissione del sindaco) e spostava qua e là la sua foce. Così, alla fine degli anni 1930, si decise di mettergli la camicia di forza; progetti del genere erano popolari all’epoca, quando la fiducia nell’ingegneria era immensa (lo Hoover Dam, la gigantesca diga che ha per sempre regolarizzato il corso del fiume Colorado, fu costruito dal 1931 al 1936). Con l’eccezione di diciassette chilometri a est di Griffith Park, il fiume fu incassato (la risonanza con una cassa da morto non è casuale) in un letto artificiale di cemento (tre milioni e mezzo di barili di cemento) e trasformato da un fiorente ecosistema in un’autostrada (un’altra!) per trasferire acqua dalle montagne all’oceano. A lungo rimase asciutto per nove mesi l’anno; poi l’acqua tornò, da scarichi industriali e residenziali, incluso il liquame di ottocentomila case nella San Fernando Valley, circa un milione di ettolitri al giorno. In sostanza, divenne il più grosso tombino del mondo: un habitat non per trote e salmoni ma per palizzate, graffiti e spazzatura. Avete capito ora perché dell’L.A. River si sa poco: perché è escluso da tutte le rotte turistiche?
Nel 1985 un poeta, giornalista e regista di nome Lewis MacAdams, con due amici e un paio di cesoie (e un po’ di whisky di troppo in corpo), fece un buco nella recinzione e dichiarò il fiume aperto al pubblico; successivamente, fondò l’associazione Folar (Friends of the L.A. River). La lotta con le istituzioni sarebbe continuata per anni: il Genio militare definì il fiume «pericoloso per la gente», ma nel 2008 un altro scrittore di nome George Wolfe, con un compagno, lo percorse tutto in tre giorni, da Canoga Park a Long Beach, in kayak; nel 2010, l’Environmental Protection Agency, ribaltando la decisione del Genio, lo giudicò navigabile.
Rimaneva la spazzatura. Nel 1988 Folar lanciò il primo Great L.A. River Cleanup. In quel momento, era grande solo di nome: a lavorare si presentarono meno di venti persone. Lo sforzo non si arrestò e oggi, dopo trent’anni, il Cleanup coinvolgerà diecimila volontari, che in tre sabati di aprile (il 13, il 20 e il 27) copriranno le tre parti in cui è stato diviso il fiume: alto, medio e basso. Ciascuno di loro raccoglierà, in media, dieci chili di rifiuti; fatti i conti, sono cento tonnellate di spazzatura che non degraderanno l’ambiente circostante e non finiranno nel Pacifico. Includono materassi, carrelli del supermercato arrugginiti, oggetti di plastica di ogni tipo.
Ci sono città in condizioni peggiori. Anche il Mississippi è da sempre indisciplinato e imprevedibile, e minaccia New Orleans; anche lì è intervenuto il Genio costruendo dighe enormi. Ma il suolo su cui sorge New Orleans, e tutto quello che c’è intorno fino al Golfo del Messico, è figlio del Mississippi: dei residui che accumula nel suo lunghissimo corso e deposita alla foce. Incanalando rigidamente il fiume e impedendogli di depositare i suoi residui, si è interrotto questo ciclo naturale, e come risultato la Louisiana del sud si sta inabissando nell’oceano; il riscaldamento globale, con conseguente innalzamento del livello del mare, non fa che esacerbare il problema. Le inondazioni del Mississippi, insomma, erano l’altra faccia della medaglia dell’esistenza stessa degli uomini in quell’area, come lo erano per gli antichi egizi le periodiche inondazioni del Nilo (interrotte dalla diga di Assuan); forzando la natura in una guaina, la si priva del suo potenziale di assisterci e si producono danni maggiori di quelli che si volevano evitare. Come dice Orazio nelle Epistole, «Naturam expellas furca, tamen usque recurret et mala perrumpet furtim fastidia victrix» («Anche se caccerai la natura con un forcone, essa tuttavia ritornerà sempre e di soppiatto smantellerà trionfante il tuo stupido disprezzo».
A Los Angeles il cataclisma per ora è rimandato. Personaggi intraprendenti hanno compiuto atti vistosi richiamando l’attenzione sul fiume e diecimila cittadini (potrebbero essere di più, ma si è presto raggiunto il tutto esaurito) si danno da fare per riparare alle ferite che la natura ha sofferto. Molti di loro vorrebbero eliminare il cemento e ritrovare il terreno, e le trote e i salmoni e i salici. Di questi tempi grami, dobbiamo essere contenti del loro impegno e della loro buona volontà: sono un invito a sperare.