Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2019
A tavola con monsignor Mario Delpini
«Questa città ha bisogno di umiltà». La città è Milano, l’anima economica del Paese. A rivolgersi – è il caso di dire – alla sua anima più profonda è l’arcivescovo Mario Delpini. L’Italia è dolente. L’economia non va bene. Le paure aumentano. A Milano le cose vanno meglio: è l’unica nostra città globale, produce più osmosi e ha più collegamenti con Francoforte o con Boston che non con Bari o con Napoli e tutti i suoi indicatori economici e sociali – di struttura e anche di congiuntura – evidenziano un benessere materiale, una robustezza e una offerta di opportunità, per i suoi cittadini e i suoi ospiti, che non hanno pari.
Tutto bene, tutto benissimo. Nelle stanze dell’arcivescovado, Mario Delpini parla però di morigeratezza e semplicità. Non in contrapposizione e non come contraltare, ma per introdurre una voce di fondo diversa rispetto alla eccitazione di una Milano che, dopo l’Expo, ha espresso una energia e una vitalità giustificate dai numeri e sostanziate dalla realtà ma forse, qualche volta, un filo compiaciute e sopra di un tono.
I collaboratori dell’arcivescovo, che si rivolgono a lui chiamandolo “don Mario”, apparecchiano le teiere con l’acqua bollente e le zuccheriere, le fette di limone e il latte. Una situazione, questa, inusuale ma non troppo per un uomo di Chiesa che, nel 1998 per San Paolo Edizioni, ha scritto un libro autoironico dal titolo “Reverendo, che maniere! Piccolo galateo pastorale”. Dice, non appena è tutto pronto, l’arcivescovo: «Milano è una comunità molto variegata. Ci sono i ricchi. Ci sono i poveri. Ci sono i cristiani. Ci sono i credenti di altre religioni. E ci sono gli atei e gli agnostici. Ogni quartiere ha la sua storia e la sua composizione. Non esiste una Milano. Esistono tante Milano».
Delpini ha una storia particolare. È di Gallarate. Ha studiato lettere classiche all’Università Cattolica di Milano: «Dal 1975 al 1980, ho preso tutti i giorni il treno da Seveso a Milano, era il tempo della violenza politica, ogni tanto per la minaccia di una bomba fermavano la corsa e facevano scendere i passeggeri». Ha una cifra da classicista e una esperienza da pedagogo e da formatore di giovani anime: nel 1989 è stato nominato rettore della sezione liceale del seminario minore di Venegono Inferiore e, dal 2000 al 2006, è stato rettore maggiore dei seminari di Milano. Nel 2007, Papa Benedetto XVI lo ha nominato vescovo ausiliare di Milano e, dieci anni dopo, Papa Francesco lo ha nominato arcivescovo quale successore del cardinale Angelo Scola sulla cattedra di Sant’Ambrogio. Ha passato molto tempo con i ragazzi che hanno avuto la vocazione. Probabilmente la frequentazione dei giovani ha contribuito a farne una persona diretta e pragmatica, empatica e semplice: «È una questione di carattere, non ho mai vissuto grandi inquietudini», dice. Anche in virtù di questo, è informale e non pone troppe distanze fra sé e gli altri. Capita che, senza dire nulla a nessuno, trovandosi in giro per Milano entri in una chiesa – del centro o della periferia – ad ascoltare la prima messa del mattino, alle sette, sedendosi fra i banchi. È per tutti, appunto, “don Mario”. Tanto che ti sembra di avere di fronte null’altro che un prete, prima che l’arcivescovo di una delle più grandi diocesi al mondo.
Questo atteggiamento di normalità si trasferisce nelle sue parole: «Non è che io ne capisca o ne sappia molto», dirà più volte, nel corso di questo incontro, sui più svariati argomenti. Non a caso, quando si riferisce alla sua città, le sue riflessioni non esprimono alcun sentore di predica formalistica e fredda: «Per Milano è un momento di grande prestigio e di grande intraprendenza. Anche se, troppo spesso, la nostra città ignora chi vive nella precarietà o nel degrado».
Lo dice mentre iniziamo a bere il tè caldo, alle quattro e mezza di un pomeriggio assolato, mentre dalle finestre dell’arcivescovado, in una stanza che dà sulla Piazza del Duomo, un musicista di strada alterna canzoni di Vasco Rossi e di Fabrizio De André.
Quando lui cita questa contraddizione di Milano, la cui corsa incessante produce ricchezza ma rende anche l’occhio poco propenso a concentrarsi su chi invece è rimasto fermo o addirittura è indietreggiato, a me vengono in mente le parole e i progetti di un altro cattolico lombardo – senza abito talare, ma con lo sguardo e l’espressione da monaco medievale – sulla povertà in generale e sulla più dolorosa e vergognosa delle ferite nascoste, la povertà dei bambini. Quel Giuseppe Guzzetti che – con la Fondazione Cariplo imperniata su Milano e sulla Lombardia ma attiva in tutta Italia – ha costruito programmi di intervento sociale finanziati con i proventi della partecipazione in Banca Intesa ed edificati sul pensiero del cattolicesimo sociale. Un riferimento subito colto da Delpini: «La lotta alla povertà infantile è un tema fondamentale. La Cariplo ha fatto molto. Lo sforzo, anche con la pubblica amministrazione e con il Comune, deve essere corale e persistente. Tutti i soggetti in campo vanno coinvolti. La chiesa, soprattutto nell’articolazione delle parrocchie, può fare parecchio: dall’assistenza per il doposcuola alla cura degli anziani, dagli interventi pratici come l’aiuto sulle bollette e sui farmaci al banco alimentare. Può farlo nella quotidianità e nelle patologie più gravi. Di recente, con la Fondazione San Bernardino abbiamo scritto una lettera ai parroci per metterli in guardia sul fenomeno dell’usura e per invitarli ad aiutare i parrocchiani a non cadere nelle mani degli usurai. L’usura è un fenomeno terribile, che viene adoperato dalla malavita organizzata per infiltrarsi nella società civile. Anche nella nostra Milano».
Una Milano che ha al suo centro il Duomo. «La speranza non può essere soltanto nel Pil, nell’export e negli investimenti. La programmazione economica qualche volta funziona e qualche volta tradisce le aspettative. Ma, oggi, c’è troppa poca speranza. I risultati economici positivi sono una cosa buona e legittima. Ma, nella società italiana e anche nella nostra Milano, il tasso di infelicità e di solitudine è preoccupante e arriva a livelli clamorosi fra i giovani. Il riferimento a Dio è troppo evanescente. Per questo manca la speranza. Non è un caso che il Duomo sia appunto nel cuore della pianta urbana di Milano. Questa città ha bisogno di umiltà, di trascendenza e di rendere conto a Dio. Il bisogno di trascendenza è oggi troppo spesso censurato o disatteso». E, fra gli effetti della asimmetria fra il benessere materiale e la crisi spirituale, l’arcivescovo cita le dipendenze: «La droga, l’alcol e il gioco d’azzardo».
Nella complessità del momento e nella necessità di costruire la speranza, la quotidianità per questo prete diventato arcivescovo e per questo arcivescovo rimasto prete è fondamentale. «La paura di ciò che non si conosce è oggi uno dei sentimenti prevalenti fra gli italiani. Ma è un sentimento che va affrontato. La paura di chi non si conosce riguarda sia gli stranieri, che oggi arrivano nel nostro Paese con le migrazioni dal Terzo Mondo, sia i vicini di casa. La paura nasce da chi e da cosa si percepisce come una minaccia inafferrabile». Si tratta di un fenomeno che si può affrontare spiritualmente e concretamente. E, ancora una volta, l’arcivescovo per sbrogliare la matassa parte, con semplicità, da una esperienza personale concreta: «Oggi tutti desiderano costruire muri, fare steccati, mettere sbarramenti. Sono nato e cresciuto in una famiglia con altri quattro fratelli e una sorella a Jerago con Orago. Era un piccolo paese. Da noi le porte e i cancelli esistevano per impedire ai bimbi di uscire di corsa a giocare in strada».
In questo colloquio, dunque, l’arcivescovo torna sul suo discorso tenuto alla città all’ultima vigilia di Sant’Ambrogio: «Si dovrà evitare di ridurci a cercare un capro espiatorio: talora, per esempio, il fenomeno delle migrazioni e la presenza dei migranti, rifugiati, profughi invadono discorsi e fatti di cronaca, fino a dare l’impressione che siano l’unico problema urgente. Credo che il consenso costruito con una eccessiva stimolazione dell’emotività dove si ingigantiscano paure, pregiudizi, ingenuità e reazioni passionali, non giovi al bene dei cittadini e non favorisca la partecipazione democratica», aveva detto in quella occasione.
Prima di accomiatarci, mentre i suoi collaboratori iniziano a portare via le teiere, le tazze e i piattini con sopra i biscotti, viene naturale chiedergli come ci si senta a occupare una posizione già rivestita da alcuni fra i più autorevoli esponenti della Chiesa cattolica italiana: lo ieratico e carismatico Carlo Maria Martini, di cui quanto più passa il tempo tanto più si colgono l’impronta culturale e la profondità spirituale, il pastore del popolo Dionigi Tettamanzi, di cui tutti ricordano la capacità di intessere rapporti umani, e il comunitario e cosmopolita Angelo Scola, di cui rimangono la riflessione sulla economia e sulla società e lo sguardo in grado di connettere Occidente e Oriente. «Mi sento in continuità con ciascuno di loro. Faccio quello che posso fare, operando sulla cattedra dei Santi Ambrogio e Carlo. Non ho né soddisfazione né agitazione per la posizione che ricopro. Sto cercando e cercherò tutti i giorni di fare questa cosa come un servizio che mi è stato richiesto. Mi sento un onesto impiegato chiamato a dirigere questi uffici».
Umiltà, appunto, per Milano e per tutti, nel giorno di Pasqua.