Corriere della Sera, 20 aprile 2019
Carrisi dirige Servillo e Hoffman
«Gli scrittori sono permalosi e accusano i registi di manipolare le loro storie. Io, come regista, ho il vantaggio di conoscere lo scrittore». Teatro 18 di Cinecittà, Donato Carrisi sta girando il film tratto dal suo best seller L’uomo del labirinto che uscirà in autunno. Cast che vince non si cambia: il protagonista (il detective Bruno Genko) è Toni Servillo, già interprete di La ragazza nella nebbia, l’esordio alla regia di Carrisi premiato con il David di Donatello.
Il film deve essere fedele o infedele al libro che lo ispira? Il tema, classico dei dibattiti che faceva fare le ore piccole nei cineforum di una volta, con Carrisi, scrittore e regista di se stesso, non si pone. Sul set si dibatte molto, invece, sulla figura dell’eroe (ma soprattutto antieroe) Bruno Genko. Abito di lino crema strategicamente stropicciato, cravatta a pallini, sandali francescani ai piedi, barba lunga, Servillo è il perfetto detective triste, solitario e finale. Ma lui non è d’accordo: «Genko non è nemmeno un detective. Faceva recupero crediti. Non è Philip Marlowe. E ha una brutta infezione al cuore. La speranza di vita datagli dai medici è scaduta. Genko può morire da un minuto all’altro, ma ricompare una ragazza, Samantha, scomparsa tredici anni prima e su cui Genko aveva indagato con esiti fallimentari. Un’occasione inaspettata di riscatto. Genko decide di dare in extremis un senso alla sua vita risolvendo ora il caso». Vuole chiudere alla grande? «A Napoli abbiamo una bella espressione: “’a miglioria primma da morte”. Una persona che sta per spegnersi riacquista per un attimo forza, salute, lucidità. Ma è un’illusione. La verità è che io recito un morto che cammina».
Non per seminare zizzania, dico a Carrisi che Genko, per Servillo, non è un detective. Lo scrittore non abbocca. «Nessuno conosce Bruno Genko meglio di Toni. Il personaggio mi è venuto in mente guardando Servillo recitare nel film precedente. Tant’è che prendevo appunti sul copione della Ragazza nella nebbia. Toni mi girava intorno come un avvoltoio e diceva alla troupe: “State attenti! Carrisi sta cagnanno ’a sceneggiatura”. Invece mi stavo portando avanti con L’uomo del labirinto. Genko nel romanzo è uno che legge Machiavelli, ascolta le Variazioni Goldberg suonate da Glenn Gould. Del Genko del film, invece, non sappiamo niente. È uno senza storia, un po’ hippy. Ho lasciato solo piccole tracce (oscure) del suo passato. Genko tiene tra le mani un accendino che reca iniziali che non sono le sue. Ha un portafotografie vuoto accanto al letto. Ha uno strano quadro in camera, ma non è il mosaico dadaista di Hans Arp che c’era nel romanzo. I diritti di riproduzione costavano una fortuna». Che quadro è? «Un Carrisi». Scrittore, regista e pure pittore ora? «No, è di mio papà. Ci siamo arrangiati in famiglia».
Più che una detective story all’americana, forse il film è un po’ una famosa commedia italiana, quella di Dante Alighieri. «Il film vuole essere una discesa agli inferi inseguendo Bunny, un coniglio con gli occhi a forma di cuore. Ogni scena è un girone, una stazione dell’inferno. Ci sono i lussuriosi (dove sta Linda, il trans, l’unica persona a cui Genko vuole bene), gli iracondi, gli accidiosi... C’è anche il Limbo». Così i poliziotti del romanzo chiamano l’ufficio persone scomparse, i chi l’ha visti. È un posto cupo, dalle pareti ricoperte di centinaia di foto di bambini e bambine, soprattutto, i più facili a sparire. Il Limbo di Carrisi, è un monumento alle persone perdute. E ghiaccia il sangue.
Nella Ragazza nella nebbia c’era un grande attore straniero, Jean Reno. Stavolta c’è addirittura Dustin Hoffman (ecco perché hanno risparmiato sul quadro di Arp!). Un incontro segnato. Quando aveva vent’anni, Carrisi propose una sceneggiatura a un produttore che gli rispose: «Per fare questo film dovresti avere Dustin Hoffman». Finì lì. «La prima volta che ho visto Hoffman per il film, gli ho raccontato quella storia. “Mr. Hoffman, lei era nel mio destino”, gli ho detto. Lui si è messo a ridere e ha replicato: “Call me Dastino”».
Hoffman ha tempestato di domande il regista. Voleva sapere tutto sul passato del suo personaggio. È il famoso (famigerato?) Metodo dell’Actors Studio: gli attori americani pretendono l’anamnesi completa del loro personaggio, ne ricercano il tempo perduto alla maniera di Proust. Hoffman, che ha girato in gran segreto e poi è rivolato via subito, interpreta il dottor Green, l’altro protagonista della storia. Così glielo ha spiegato Carrisi: «Il dottor Green è un vecchio uomo che vive da tempo immemorabile in un vecchio labirinto. E Hoffman, che possiede un’energia sbalorditiva per un uomo di 82 anni, è diventato questa strana creatura con le sue stanchezze, il suo dispiacere. Alla fine, gli ho chiesto di essere commovente, di tirarmi fuori la lacrima e ha fatto tremare l’intero set. C’è una gentilezza nel film che contrasta con l’orrore di fondo, con la collezione di mostri terribili che metto in scena. Ma, come scrivevo già nel romanzo, i mostri non lo sanno di essere mostri. Forse sto dicendo troppo».
Servillo è ora seduto in camerino a scaldarsi, come in una commedia del suo amato Eduardo, davanti a una stufetta elettrica (fa un freddo cane al Teatro 18, soprattutto per chi, per esigenze di copione, è costretto a portare i sandali). Gli chiedo cosa ha rappresentato per lui Dustin Hoffman. «Uno dei due o tre attori che appartengono alla mitologia della mia formazione. Hoffman, De Niro, Pacino sono i nomi che ricorrevano più frequentemente nei sogni della mia generazione. Un uomo da marciapiede, Lenny, Tootsie, Kramer contro Kramer... Dustin Hoffman ha fatto la storia del cinema. Non avrei mai immaginato nella vita che mi succedesse di condividere il set con lui». E di persona che tipo è? «Come accade sempre, più le persone sono di straordinaria levatura, più dimostrano nella quotidianità una semplicità e una cordialità estreme».
Reclamano Servillo sul set per una scena in cui deve dettare qualcosa a un registratore. Una scena legata a uno dei grandi temi della storia: Genko sta per morire e vorrebbe ritrovare qualcosa del passato. Ma ascoltiamo direttamente dalla voce (chandleriana, se mi posso permettere) di Toni Servillo: «Quando stai male non vuoi indietro il giorno più bello della tua vita, vuoi un giorno normale. Voglio stare bene come stavo in un giorno che non me ne accorgevo. Quei giorni che si dimenticano il giorno dopo. Proprio quelli lì». «Eeeehh cut», grida Carrisi (all’americana, come gli ha insegnato Hoffman). Buonissima la prima.