il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2019
Ventisei interviste sull’arte
Fortunato è il caso, come questo, in cui la copertina di un libro ne racconti compiutamente il senso. Tenendo in mano Interviste sull’arte di Robert Storr (Il Saggiatore, a cura di Francesca Pietropaolo, pp. 416, euro 38), osserviamo l’immagine del citofono di un palazzo in cui a ognuno dei 26 interni raffigurati corrisponde il nome di un artista: Letizia Battaglia, Louise Bourgeois, Richard Buckminster Fuller, Francesco Clemente, Alex Kats, Ellsworth Kelly, Jeff Koons, Paul McCarthy, Gerhard Richter (tra gli altri).
Cosa sia l’arte, quali siano i meccanismi istintuali che la muovano, è una domanda che non ha mai una risposta sola, ma sempre una risposta molteplice. Pertanto, l’idea di un condominio di più voci, di più ricordi (che molto cita la metafora di Sant’Agostino di un palazzo della memoria), calza perfettamente con il tono di queste interviste – intime, autentiche, riflessive – in cui gli artisti ascoltati non vogliono certo definire l’arte dentro l’etichetta del linguaggio, quanto piuttosto regalare l’inedita esperienza della chiamata all’arte, dello schianto che si prova quando si capisce di essere artisti.
Per la fotografa Letizia Battaglia (1935), tutto nasce dall’amore per la città di Palermo: mentre ricorda gli anni da fotoreporter per il quotidiano palermitano L’Ora, ammette “non me ne fregava in realtà molto di essere [una fotografa]. A me interessava Palermo”; così come per il collettivo Alterazioni Video, il progetto artistico Incompiuto Siciliano (2007) – che racconta “parcheggi senza uscite, dighe senz’acqua, stadi di polo senza cavalli e così via” – è un modo per “cambiare la percezione degli edifici incompiuti in Italia nati dalla speculazione degli ultimi trent’anni”. Ugualmente “politico” è l’istinto di Jeff Koons(1955), che racconta le lotte e la rabbia sociali con l’arte che però, precisa, “non può stringere alcun tipo di alleanza politica, se non con se stessa”. Ma le ragioni possono essere meno collettive e più intime, senza perdere il loro carattere universale. Se per la scultrice Louise Bourgeois (1911-2010) modellare la materia equivale a curare le ferite del rapporto con la madre, l’essere stato un bambino presbite e strabico agli inizi del ’900 – quando l’ottica non era una scienza così avanzata – insegna a Richard Buckminster Fuller(1895-1983) che “ci sono modi diversi di vedere le cose”: inventore, architetto, designer, costruì la sua prima casa (“una casetta graziosa in mezzo al bosco, ancora in piedi” racconta) per sfuggire ai cugini più grandi che lo bullizzavano.
Se la sincerità è tale, è perché nelle interviste di Robert Storr non c’è scampo: lui pone “domande reali” e vuole sapere “cosa pensano e come pensano”. E proprio come in un condominio, non stupirà captare nel libro antipatie e pettegolezzi: Koons non vuole “banalizzare” il proprio lavoro, serializzando con multipli a basso costo come Keith Haring, e sempre lui limita Andy Warhol a sostegno della grandezza di Marcel Duchamp. Per il pittore Gerhard Richter (1932), l’arte del suo connazionale Beuys è “un mezzo falso, quasi una truffa” e le sue idee sociali “assolutamente stupide”. Louise Bourgeois, invece, ricorda le difficoltà con un André Breton “geloso e possessivo”, Le Corbusier “patetico” come figura paterna per i giovani, e Peggy Guggenheim “una donna contro le donne”. Mentre Alex Katz (1927) odia i biopic sentimentali dedicati ai pittori e Paul McCarthy (1945) iniziò a dipingere col pene per “prendere in giro la New York School e l’idea di espressionismo”.
Ma nel riavvolgere senza rete di protezione la propria vita dedicata all’arte, c’è spazio anche per i maestri. Per Katz, è il compositore John Cage, un uomo “sempre aperto”, come pure per l’artista visual russa Olga Chernysheva (1962) che pone Cage, “il più internazionale per mentalità e influenza di tutti gli artisti americani del XX secolo”, accanto al regista russo Sergei Eisenstein; il pittore e scultore Ellsworth Kelly(1923-2015) confessa: “Picasso mi faceva venire voglia di dipingere”. Un tratto emerge, dunque, comune: che sia con un maestro amico o con un nemico, è l’incontro (con il mondo o con sé) il motore primo dell’arte, un incontro – come dice Letizia Battaglia – “o con la morte o con la vita”.