Tuttolibri, 20 aprile 2019
Diario di scrittura di Angelo Guglielmi
Io ho pubblicato il mio ultimo libro Il romanzo e la realtà nel 2011 e fin da subito (e tanto più con il passare degli anni) sentivo che aveva appena sfiorato il tema e dal punto della riflessione teorica che degli esempi portati. Dunque ero scontento. E invero ero insoddisfatto e dubbioso anche degli altri miei libri precedenti, tranne che per il primo
Avanguardia e sperimentalismo – uscito nel 1964 – dove raccontavo la novità rappresentata dal Gruppo’63 e La letteratura del risparmio del 1967 in cui aggiornavo scelte e convincimenti (letterari) ad appena due anni dal (fatidico) ’68 (e tanto più dai più decisivi anni settanta). La mia scontentezza – che sfiorava anche i due libri che salvavo – riguardava il linguaggio (da me usato) che, di fronte all’alto livello di concettosità che caratterizzava la letteratura della neoavanguardia mi costringeva a ricorrere a modi di dire (metaforici e arditi) che nel tentativo di essere più chiari possibile rischiavano il contrario. E che il lettore comune (e con qualche ragione) trovava di difficile lettura o comunque in sospetto di pressappochismo e inadeguatezza. Poi tra 2016 e il 2017 mi chiedevo se oltre la normale attività di recensore avesse senso scrivere un nuovo libro prima di chiudere la mia stagione visto che ero alla vigilia (seppure larga) di un età cosi annosa che per tutti coincide con il termine ultimo di ogni progettazione (da allora non più eventi ma quotidianità più o meno attiva). Rimasi a lungo nell’incertezza finché mi convinsi della opportunità di un libro conclusivo purché fosse in grado di correggere le sconvenienze e insufficienze (di cui più sopra ho detto) e nel contempo di fornire una informazione integrativa su aspetti della mia vita non per caso finora taciuti come su gli aspetti più significativi (e decisivi) della mia lunga (e soprattutto varia – ho fatto molti mestieri) attività professionale. Dunque purché fosse un libro che finalmente mi piacesse e potesse piacere anche ai lettori che come me pativano il dubbio rispetto a tutti i miei libri precedenti.
Io, che non amo l’autobiografia, mi accorgo che la mia vita di bambino, di adolescente e di appena adulto contiene modi di essere che per la loro straordinarietà (in positivo e soprattutto in negativo) sono stati determinanti (al di là di quel che capita a ogni essere vivente) a «farmi» quel che sono stato nella mia vita e attività di uomo maturo (e del fare). Così ho deciso di provarmi in brevi brani narrativi (appunto Racconti sparsi ) ciascuno dei quali raccontasse un episodio (o una situazione) che, per la sua eccezionalità, meritasse di essere messo in evidenza. Per esempio il ricordo che non temeva smentite che io all’età di otto e nove anni avevo partecipato con la sola guida di me stesso - senza avvertire i miei genitori (temendone il non consenso) - ai funerali alla Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma (dove abitavo) prima di Marconi nel 1937e poi di D’Annunzio nel’38 (o il contrario, ma non è questo che qui importa) non poteva non essere oggetto del mio primo « racconto sparso». Poi al seguito tanti altri: che già a sette anni mi aggiravo a piedi nella città di Roma incuriosito di verificare che il Colosseo fosse uguale a quello stampato (alla fotografia stampata) nel mio sussidiario; che ancora prima dei dieci anni mia madre mi commissionava acquisti in esercizi commerciali distanti molti chilometri da casa e io in mezz’ora ero di ritorno conquistando la fama di essere un vero ometto (di cui confesso avrei approfittato); che io dai dieci ai tredici anni ho fatto lunghi viaggi da solo sfidando la guerra e le bombe; che ero stato attore di azioni e comportamenti che invece che esaltarmi mi producevano vergogna: questi e molti altri (di richiamo non comune) il lettore potrà leggere nel libro di cui qui sto discorrendo.
Ma a questo punto dovendo passare a raccogliere le mie riflessioni (e giudizi) su quanto a mio parere (e per la mia generazione) restava del ‘900 (del Novecento italiano) – limitatamente alle letture che ne avevo fatto – si poneva il problema della lingua, cioè che fossero espresse in una lingua che da tutti risultasse comprensibile (almeno da coloro che avessero qualche dimestichezza con la letteratura e, più in generale, la produzione artistica) e dotata di quel tanto di seduzione necessaria per trasmettere la voglia di leggere. Questa era la difficoltà con cui mi ero da sempre scontrato e che ora il tempo di un libro conclusivo imponeva di superare. Vi era poi il problema del materiale da raccogliere che non poteva essere tutto quello che avevo prodotto ma solo una scelta oculata e severa anche perché volevo che il libro fosse snello e leggero e soprattutto che i pezzi scelti avessero forma narrativa armonizzandosi con i «racconti sparsi» con i quali si sarebbero mischiati (con i quali avrebbero convissuto).
Risolti questi problemi decisamente ardui ho scritto la Premessa in cui raccontavo perché avevo scritto questo libro conclusivo. Non mi rimaneva che attendere la volontà e il giudizio dell’Editore.