Tuttolibri, 20 aprile 2019
I batteri e le glaciazioni fecero cadere l’impero romano
Tascio Cecilio Cipriano era un retore pagano che aveva deciso di abbracciare la nuova religione di Cristo. Fu subito acclamato vescovo della sua città natale, Cartagine e, dopo la sua morte, sarà fatto santo. Ma, nell’anno 251, Cipriano viveva ancora la realtà drammatica di un impero attraversato da lacerazioni e convulsioni di ogni genere. Tra queste, una terribile peste che dalle regioni interne dell’Africa si era diffusa in tutto il Mediterraneo, colpendo metropoli come Antiochia, Alessandria e la stessa Roma. I resoconti antichi descrivono un quadro catastrofico, parlano di case e città svuotate dalla pestilenza.
Qualcuno imputava l’apocalisse proprio alla nuova e strana religione: sono i cristiani, si mormorava, a minare la salute dell’impero. Allora Cipriano scrive una lettera, indirizzata a un pagano, in cui spiega che i cristiani non hanno alcuna colpa. E’ il mondo stesso, dice, a essere invecchiato: «D’inverno non c’è più abbondanza di piogge per le sementi, d’estate non più il solito calore per maturarle, né la primavera è lieta del suo clima, né è fecondo di prodotti l’autunno».
Da questa «vecchiaia del mondo», senectus mundi, derivano anche «la frequenza maggiore delle guerre, le carestie e la sterilità, l’infierire di malattie che rovinano la salute, la devastazione che la peste opera in mezzo agli uomini». Non è colpa dei cristiani ma, anzi, il segno che, come annunciavano le profezie, il Giorno del Giudizio si avvicina.
La voce di Cipriano è tra le prime a esprimersi sul tema del declino e della caduta dell’impero romano. Problema secolare, sul quale sono fiorite moltissime e spesso stravaganti risposte. Lo storico statunitense Kyle Harper ne conta ben 210. Ma, con questo libro su Il destino di Roma, non intende aggiungere la 211esima. Anzi, prova a guardare le cose da una prospettiva diversa. Più ampia, perché abbraccia non solo la storia umana ma anche le trasformazioni dell’ambiente naturale e i mutamenti climatici globali. E più piccola, anzi microscopica, perché si concentra su minacce tanto invisibili quanto insidiose: i microbi, i germi, i batteri che, a partire dal II secolo d. C. sconvolgono l’impero con epidemie micidiali, come quella vissuta da Cipriano.
L’impero, argomenta Harper, fu minato dal suo stesso progresso. La rete globale di scambi metteva in circolazione anche le malattie: «Per le strade e le rotte marittime», scrive lo storico, «si muovevano non solo popoli, idee e merci, ma anche germi». Gli agenti patogeni viaggiavano lungo la Via della Seta o sui barconi che, risalendo il Nilo, portavano a Roma gli animali feroci destinati al Colosseo. La stessa intensa urbanizzazione dell’impero portò non solo civiltà ma anche agglomerati urbani sovrappopolati e malsani.
Harper offre un singolare dato statistico: a Roma, dice, si producevano quotidianamente «45 tonnellate di escrementi umani», difficili da smaltire e con inevitabili effetti sulla salute pubblica. Questa prospettiva sul mondo antico, visto, per così dire, dalle latrine, può apparire bizzarra ma forse è più realistica di quella che si limita a contemplare i marmi e gli splendori dell’Urbe.
Anche i cambiamenti climatici, problema oggi assai discusso, avrebbero afflitto già il mondo antico. Secondo i dati raccolti da Harper, l’espansione del dominio romano coincise con un optimum climatico, caratterizzato da temperature alte e stabili, che «trasformò le terre governate da Roma in una gigantesca serra». Ma dal II secolo d. C. sarebbe subentrata una fase di clima più freddo e instabile, culminata poi in una piccola glaciazione.
In fondo, le stesse parole apocalittiche di Cipriano potrebbero essere lette attraverso la chiave mutamenti climatici: «Il sole al tramonto irradia i suoi raggi con minore splendore e minore calore. La sorgente, che prima scorreva abbondantemente con gorgogliante corrente, fa a mala pena sgorgare poche gocce».
Clima a parte, è certo che varie epidemie hanno infierito sull’impero, almeno a partire dalla «peste antonina» esplosa nel 165, al tempo di Marco Aurelio. E’ probabile si trattasse di vaiolo e le fonti antiche parlano di intere città spopolate dalla pestilenza. Già lo storico ottocentesco Barthold Georg Niebuhr scriveva che «il mondo antico non si è mai ripreso dal colpo inflittogli dalla peste che lo ha visitato durante il regno di Marco Aurelio».
Resta ovvio che non ha molto senso parlare di una decadenza durata secoli (l’impero romano cadrà davvero solo nel 1453, quando i turchi prenderanno Costantinopoli). Ma forse, accanto alle orde dei barbari, anche microbi e germi hanno contribuito a determinare il destino di Roma.