Tuttolibri, 20 aprile 2019
Herman Koch contro i radical chic
Herman Koch è uno scrittore di poche parole, dove contano più i vuoti dei pieni. Nessuna indulgenza, nessun autocompiacimento, dritto al punto con un cinismo e una penna tagliente che rasa via ogni orpello e spiazza il lettore. Chi legge uno dei suoi libri è molto probabile che poi continui con gli altri, perché la sua satira cinica è anche molto divertente. Olandese, personaggio poliedrico, ha scritto anche testi per la radio, la tv e il cinema; ha 65 anni, una moglie e un figlio.
Il suo romanzo più famoso è La cena, uscito nel 2009, tradotto in 21 lingue e in 55 paesi, un caso senza precedenti per la piccola nazione dei tulipani, con un milione e passa di copie, e da cui è stato tratto uno spettacolo teatrale, una serie per la radio e ben tre film: il primo in Olanda, il secondo in Italia nel 2014 (I nostri ragazzi, regia di Ivano De Matteo con Alessandro Gassman, Giovanna Mezzogiorno e Luigi Lo Cascio) e l’ultima deludente versione negli States nel 2017 (con Richard Gere e Steve Coogan), perché agli americani certe sfumature tipicamente europee sfuggono. La storia è quella di due famiglie borghesi alle prese con un fatto che potere e soldi non possono risolvere: i due figli adolescenti e viziati hanno ucciso una senzatetto e c’è un video che potrebbe inchiodarli. Gli abbienti genitori proveranno a proteggerli occultando il fatto o usciranno allo scoperto denunciandoli per far capire ai pargoli cosa è la vita reale? Questo il dilemma che le due coppie sviscerano durante la cena in un esoso ristorante
nouvelle cuisine, in una spirale che riporterà in superficie vecchie ruggini, rancori familiari eccetera.
Ora Neri Pozza pubblica anche il romanzo di esordio di Koch, uscito nel 1989 e lo intitola La scuola. La struttura è ancora una spirale che scava nei rapporti di una famiglia, ovviamente borghese e abbiente e ovviamente progressista, che spedisce il figlio in una scuola montessoriana con l’intenzione di dargli un’istruzione non autoritaria e molto liberal e comprensiva.
Sarà un susseguirsi di disastri e il metodo Montessori ne esce massacrato. Anche qui, Koch inizia il romanzo prendendolo per il collo: «La storia che voglio raccontare parla del ragazzo ritardato». Il ragazzo ritardato farà una brutta fine e lo si capisce dalla prima pagina. Ma la trama conta poco, in questo come in altri suoi libri, perché fin dall’inizio è chiaro dove si va a parare. Quello che conta è il modo in cui Koch porta il lettore a scavare per toccare il fondo delle relazioni umane.
La sua satira sociale è diretta contro una particolare categoria: i benestanti di sinistra che si entusiasmano per le verdurine biologiche, si ammazzano per fare una vita sana, sono pieni di buone intenzioni e buoni principi. Perché proprio loro?
«Perché è la mia stessa classe sociale, è l’ambiente da cui provengo e quindi lo conosco bene, come tutto il corollario del politicamente corretto che si porta dietro».
La sua famiglia era più ricca o più radical chic?
«Mio padre non era ricco, ma era il direttore di un giornale socialista molto di sinistra. Era élite, molto radical ma poco chic. Sono cresciuto in una casa piena di libri, leggevano da Céline a Simone de Beauvoir».
E l’hanno spedita all’Istituto Montessori di Amsterdam, giusto? Quanto c’è di autobiografico neLa scuola?
«Molto autobiografico. Anche se nella fiction esagero i toni, rendendo tutto molto bianco e nero: i professori tutti degli scemi, i ragazzi delle vittime».
Perché ce l’ha tanto con il metodo Montessori?
«Anche qui è una questione di ipocrisia. C’era l’autocompiacimento di dire siamo la migliore scuola di Amsterdam, forse dell’Olanda o forse addirittura del mondo. E poi ci facevano fare le recite con i pupazzetti. Tutta questa retorica progressista della libertà e poi ti controllavano anche la vita privata fuori dalla scuola. Entrai in depressione, mi mandarono da un psicologo, che è morto una settimana dopo. Quella prima visita sono state le uniche due ore di terapia che ho fatto nella vita, perché nessuno pensò a cercare un altro psicologo. Ancora ipocrisia. Per questo ho messo la scena nel libro».
L’unica figura che si salva è la madre. Che però si ammala. Perché?
«Mia madre è morta quando avevo 17 anni. Anche questo è un passaggio di autofiction».
Con il suo cinismo lei già 30 anni fa distruggeva quella che adesso, nell’era del populismo, è definita «l’élite». Si sente un precursore?
«Oggi la rabbia viene fuori ovunque, ma è diversa da quella dei miei libri. Io non attacco il ragazzo ritardato, il nero o il diverso. Ma solo l’ipocrisia di una certa borghesia che ne fa un tabù. Io attacco il politicamente corretto, non le persone».
Non ha paura che oggi il politicamente scorretto possa degenerare facilmente in odio sui social media?
«Oggi bisogna stare attenti, perché può essere usato come carburante per fomentare un odio contro le persone. All’epoca non c’erano i social media e io comunque non li uso. Quando incontro i miei lettori mi dicono che i miei libri sono liberatori perché io scrivo cose che loro pensavano ma non avrebbero avuto mai il coraggio di dire».
Perché ha cambiato il nome di Maria Montessori in Maria Montanelli?
«Primo, perché non volevo avere problemi con gli eredi. Secondo, perché non è un libro su Maria Montessori ma è fiction, e cambiare il nome enfatizza questo aspetto. E poi, visto quello che mi ha fatto passare non la volevo neppure nominare. Ma questa prendetela come una battuta».
Loro come hanno reagito?
«Una ventina di anni fa ci fu una riunione di ex studenti. Un amico che ci è andato mi ha raccontato che c’era un espositore con il mio libro e una didascalia: “Anche se non è un capolavoro, fa un buon ritratto delle nostra scuola negli anni Sessanta”. Non hanno perso l’occasione per ribadire la loro sufficienza, anche in quel caso».
Lei sembra piuttosto spregiudicato e cinico. C’è un tema che non affronterebbe mai?
«La pedofilia è un soggetto che non voglio indagare come scrittore. E anche il terrorismo. Vanno lasciati nelle pagine della cronaca».
Libri in arrivo?
«Uno già finito, uscirà a fine anno in Olanda. E poi sto lavorando a quello successivo. Quando termino un romanzo sono stremato e mi riprometto di prendermi come minimo tre settimane di vacanza. Poi però dopo una settimana sono già al computer, perché mi è venuta in mente una nuova storia che non può aspettare. Non è che mi ammazzi di lavoro, comunque. Sono molto lento, produco una pagina, massimo una pagina e mezzo al giorno».
Ha chiuso con tutto il resto, la radio, la tv e gli altri testi?
«Sì, per fortuna dopo il successo di La cena mi posso permettere di fare solo lo scrittore. Vivo metà del tempo a Amsterdam e metà a Barcellona perché mia moglie è spagnola. Scrivo ogni giorno, ma solo un paio d’ore, quanto riesco a concentrarmi davvero. Poi mi stanco e anche le frasi diventano stanche. C’è solo un giorno in cui non scrivo: quello successivo a una sbornia».