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 2019  aprile 20 Sabato calendario

Intervista a Paola Cortellesi

Ma cosa ci dice il cervello quando parcheggiamo in doppia fila, quando lasciamo a terra la cacca del nostro cane, quando aggrediamo la pediatra perché abbiamo già letto tutto su internet, scalciamo il professore che ci ha messo quattro, diamo una testata al mister di nostro figlio perché siamo nati allenatori? Ambientata in una città in cui per dirla alla Raggi, "i romani vedono la merda", la commedia di Riccardo Milani s’inventa una Paola Cortellesi spia che tra una missione e l’altra ingaggia una vendetta privata mettendo gli strumenti sofisticati dei servizi segreti e una serie di esilaranti travestimenti al servizio degli ex compagni di scuola vessati sul posto di lavoro.

Il film fa ridere e mette un po’ in imbarazzo: il pubblico si riconoscerà anche un po’ nei carnefici.
«Riccardo dice sempre una cosa che condivido: mi piace fare i film per le persone che non la pensano come me. Ci si riconoscerà su entrambi i fronti. Scrivendo ci siamo documentati, guardandoci anche intorno. A una nostra amica insegnante i genitori di un ragazzino che aveva preso un brutto voto hanno mandato davvero gli avvocati. Capita tutti i giorni di assistere a infrazioni nel traffico, angherie violente, per fortuna nostra viste dal finestrino.
A volte pensi: come cittadino dovrei intervenire, ti senti in colpa per non averlo fatto perché c’è sempre la paura latente che qualcuno ti picchi con la mazza da baseball, come succedeva in Come un gatto in tangenziale».
Le è capitato di fare qualcosa di cui si è vergognata?
«Sì, quando ho lasciato la macchina in doppia fila. Ho pensato "per qualche minuto...". Dovevo fare una cosa, ma niente di così importante. In apparenza non ho fatto danni, però qualche giorno dopo ho visto una persona sulla sedia a rotelle che non riusciva ad attraversare nello scivolo tra marciapiede e strada per colpa della macchina messa male: ho pensato che avrebbe potuto essere la mia. Però vorrei anche distinguere tra chi si rende conto di sbagliare e chi pensa invece sempre di essere nel giusto. Lì sono dolori».
Il tema del bullismo torna nelle cose che fa. Lei ne è stata vittima.
«Non mi hanno segnato in modo grave, ma mi sono rimasti dentro certi episodi vissuti a scuola. Ai tempi non si parlava di bullismo, non c’era la giusta attenzione che c’è oggi. Sono cresciuta in una borgata, un luogo abbastanza vivace. La mia scuola era normale, la classe numerosa e c’erano ragazzi che, oggi lo capisco, vivevano un disagio familiare. Gente che ti puntava, ti spintonava, ti prendeva a schiaffi, ti tirava i capelli. Alle medie, quando la stazza di maschi e femmine è quasi uguale ci sono meno remore ad alzare le mani».
Perché la prendevano di mira?
«Lo facevano con tutti i ragazzi più timidi e dimessi, come ero io. Ero una brava, cercavo di non farmi notare, non rispondevo male. All’inizio subivo, poi ho imparato a reagire. Non ne ho mai parlato con mia madre, pensavo di dovermela cavare a da sola».
Prendeva le parti degli altri?
«Sì, ho preso anche qualche schiaffone per questo, mi hanno tirato un pallone da basket in faccia. Mi sono ritrovata anni dopo a scrivere un monologo sul bullismo, a parlarne nelle scuole. Oggi tutto è più grave perché ciò che ti succede spesso finisce anche in Rete, diventa una cosa che ti ridicolizza e non controlli più».
Il film affronta argomenti seri, cercando di far ridere senza quello che lei chiama il "cattivismo".
«Il cattivismo non è costruttivo. Non mi piace il messaggio consolatorio, ma neanche le cose distruttive. Le risate partono sempre dalle miserie e dal dramma».
Fuori dagli stereotipi anche il personaggio di Stefano Fresi, l’ex bellone della scuola che con tanti chili in più è ancora attraente.
«Il mio personaggio resta innamorata di quel ragazzo che non aveva solo gli addominali, ma altre qualità che sono rimaste: l’amore per il lavoro, l’etica salda».
La sua spia ricorda la Jennifer Garner di "Alias".
«Adoro la Garner, soprattutto quando fa Elektra, supereroina nello spin-off di Daredevil. Sono pazza dei cinefumetti, ho visto tutti gli Avengers e pure gli X-Men. Il mio preferito è Wolverine: Logan era romantico, malinconico».
"Avengers: Endgame" esce il 24. Una bella concorrenza.
«Non una buona notizia, entra con la gambona tesa negli incassi, ma sarei andata serenamente a vederlo. Quando è uscito La Befana vien di notte però c’era Mary Poppins, mi trovo sempre a combattere con i giganti hollywoodiani. E la Befana ha trovato lo stesso un posto nel cuore dei bambini».
E poi ci sono i travestimenti: la tatuatrice, la tassista, la fattorina, il sassofonista...
«Molti di questi lavori io li ho fatti davvero. A vent’anni lavoravo come Biancaneve in uno dei primi parchi a tema. Sette turni al giorno, mi svegliavo ogni tre baci di bambini, che "smocciolavano" parecchio, attaccandomi il raffreddore. Lavoretti da pochi soldi che servivano per la benzina, le tasse universitarie, la scuola di teatro».
Ad esempio?
«Hostess alle convention, cantante nei piano bar. A sedici anni il sabato suonavo in discoteca, al Gilda. Cantavo in gruppi rock, blues, pop, solista e corista. Ricordi che sono tornati utili».
Mai ricevuto attenzioni indesiderate sul lavoro?
«Mai capitato, davvero. Con Laura Pausini (nel programma Laura & Paola del 2016 su Rai 1, ndr) ci siamo inventate uno sketch perché al pianobar diventi trasparente, canti per quattro ore mentre gli altri bevono. Avrei fatto la cantante ma non sapevo scegliere il genere. Ho fatto l’attrice per vivere tante vite».
Anche una vita da regista?
«Ci penso, sì. Non ho ancora una sceneggiatura ma so che parlerò di donne e di lavoro. Non necessariamente di problemi, ma da lì si parte, quando fai una commedia. Non puoi ridere di una cosa che fa già ridere, devi ridere di una cosa drammatica».