Focus, 20 aprile 2019
Come si costruivano le grandi opere
«Quando il Moncenisio sarà perforato e attraversato dalle locomotive, quando in tutte le stagioni dell’anno voi potrete spedire merci da Genova, da Torino, a Lione ed a Ginevra, siate certi che il traffico interno ed esterno cresceranno in una proporzione enorme. I nostri prodotti troveranno vantaggiosi mercati e la loro esportazione potrà aumentare immensamente». È l’agosto 1857, qualche anno prima dell’Unità d’Italia: il Conte di Cavour arringa così il parlamento del Regno di Sardegna per convincere i deputati ad approvare la costruzione di un tunnel ferroviario tra Torino e la Savoia. Di lì a poco re Vittorio Emanuele II ordinerà l’inizio dei lavori di scavo stanziando 42 milioni di lire, una cifra enorme per l’epoca. Il traforo del Frejus verrà inaugurato infine il 17 settembre 1871. All’epoca nessuno si oppose all’opera, né mostrò preoccupazioni per l’ambiente.
Tutti erano convinti che la ferrovia fosse portatrice di progresso. In seguito fu poi la rete autostradale, soprattutto quella realizzata nel secondo dopoguerra, ad assumere il ruolo di acceleratore del Paese che era appartenuto alle ferrovie all’indomani dell’Unità d’Italia. Ma in passato le infrastrutture sono sempre state viste come una metafora del progresso? Lo abbiamo chiesto a Stefano Maggi, docente all’Università di Siena ed esperto di economia e politica dei trasporti.
Com’è cambiato nel corso dei secoli l’approccio all’opera di pubblica utilità?
L’Impero romano si impegnò in grandi opere ingegneristiche e si resse di fatto sulle strade. Si adoperò nella loro lastricatura e inaugurò il cosiddetto cursus publicus, cioè il servizio postale che assicurava gli scambi all’interno dell’impero. Le strade romane assunsero un ruolo strategico-militare molto importante e furono anche un elemento chiave per lo sviluppo economico. Fin dall’antichità il potere ha sempre curato le vie di comunicazione, salvo quando era intenzionato a isolarsi. A partire dal ’700, nell’Età dei Lumi, iniziò a diffondersi l’idea che la strada fosse portatrice di progresso e la ferrovia, in particolare, divenne sinonimo di modernità. Per la Russia è stata fondamentale la Transiberiana per colonizzare la Siberia, per gli Stati Uniti è stata imprescindibile la costruzione della ferrovia verso l’Ovest, per controllare quel territorio.
Le opere pubbliche diventarono anche un mezzo per ottenere il consenso politico...
Sì, soprattutto le ferrovie, che prima non erano determinanti. L’idea della regolazione governativa trovò una formulazione compiuta in Adam Smith, il padre dell’economia politica, che individuò nei trasporti un’attività produttiva ma anche una precondizione per lo sviluppo economico e sociale. Il miglioramento della viabilità favorì la crescita commerciale e manifatturiera del ’700. Le strade vennero allargate e sterrate, si iniziarono a usare forme di pavimentazione che le resero praticabili in ogni stagione e si ricominciarono a scavare i canali come si era fatto in precedenza, nel Medioevo.
Anche all’epoca ci fu chi si oppose a queste nuove infrastrutture?
No, non nei confronti delle strade, che erano sempre considerate sinonimo di progresso. Nell’Ottocento non vi furono neanche proteste contro le ferrovie, come oggi sta accadendo per la Tav. A opporsi, talvolta, erano i proprietari terrieri che non volevano vedere i loro fondi attraversati dai binari; o i carrettieri che temevano di restare senza lavoro a causa dei treni; oppure i contadini, perché credevano che il fumo delle locomotive potesse far ammalare le piante.
Come si finanziavano le opere pubbliche nel passato?
In epoca feudale c’erano le corvée, ovvero le prestazioni lavorative obbligatorie prestate per la manutenzione delle strade. Quando nacque la burocrazia, nel XVIII secolo, iniziò a occuparsene lo Stato e fecero la loro comparsa le strade statali e comunali. Anche i privati cominciarono a metterci le mani già nel ’700, in Inghilterra, con le cosiddette turnpike roads, antenate delle autostrade di oggi, la cui realizzazione e manutenzione era garantita in cambio del pagamento di un pedaggio. Inglesi, infine, furono anche i primi interventi privati sulle ferrovie. Il ruolo del settore pubblico resterà però sempre indispensabile. Lo Stato poteva intervenire con sovvenzioni, garantendo un rendimento alle azioni private, oppure con finanziamenti per la costruzione e la gestione delle reti, come accade ancora oggi per le ferrovie regionali in Italia. Nel XX secolo le ferrovie diventarono pubbliche quasi ovunque, quelle private sono tutt’oggi pochissime. È un sistema complesso che si regge soltanto grazie ai finanziamenti pubblici.
Quando si cominciò a dubitare che il progresso fosse sempre portatore di benessere?
In tempi molto recenti, negli Anni ’80, con la diffusione della cosiddetta sindrome “Nimby” (acronimo di “Not in my backyard”, ovvero “non nel mio cortile”), tipica di chi sostiene che le opere pubbliche potrebbero avere risvolti negativi sul proprio territorio. Una tendenza nata negli Stati Uniti per protestare contro la realizzazione di siti industriali, centrali, discariche, ferrovie o aeroporti.
In passato si faceva qualcosa di simile all’odierna valutazione d’impatto ambientale? No, si tratta di una preoccupazione recente.
Si faceva uno studio senza tenere conto di tanti parametri relativi all’ambiente come si fa oggi, perché era comunque radicata la convinzione che l’infrastruttura rappresentasse un beneficio per il Paese e la tutela ambientale era un concetto ancora ben lontano dall’affermarsi.