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 2019  aprile 19 Venerdì calendario

L’intervista a Marco De Vincenzo

Marco De Vincenzo, stilista, è nato a Messina.
Ieri Marco De Vincenzo era a Cremona per visionare i prototipi della sua prima collezione di moda maschile che sfilerà il 12 giugno a Pitti Uomo 96. Nato a Messina nel 1978, ha studiato Moda e Costume allo Ied di Roma per poi diventare il braccio destro di Silvia Venturini Fendi. Nel 2009 ha fondato il marchio omonimo Marco De Vincenzo, frutto di una disciplina calvinista rotta da una sensibilità spettacolare ed eccentrica. Vive tra Roma e Milano.
Si sente più romano o milanese?
«Milano vuol dire Marco de Vincenzo, però amo fare il pendolare, passare dalla meraviglia di un passato disponibile a tutti ai giardini segreti di Milano».
Nell’immaginario globale la Sicilia della moda è Dolce & Gabbana.
«D&G ha sintetizzato benissimo la Sicilia, in immagini note al mondo intero. Io mi limito a scomodare esperienze di vita. Per la SS19 il ricordo di una zia d’America che mi veniva a trovare al mare. La mia estetica è slegata da un luogo e da un contesto storico precisi. Penso che le proprie origini diventino interessanti se mescolate. Così ognuno può cogliere qualcosa per sé».
Eppure il suo marchio ha un’identità.
«La riconoscibilità oggi è importante ma l’ansia di seguire le tendenze non l’ho mai avuta. Mi piace vedere come le donne interpretano le mie collezioni su Instagram».
Ha mai lanciato una tendenza?
«Per la Fall 2015 disegnai la collezione Rainbow in lurex perché un tessuto meraviglioso mi aveva incantato. E adesso il lurex è ovunque, anche di giorno. La stessa cosa è accaduta con l’eco-fur, nella Fall 2016. Ebbi un incontro magico con un tessutaio che fabbricava peluche».
Ma l’ecopelliccia esisteva già.
«Sì, ma scimmiottava la vera. A me piaceva la storia del giocattolo che diventa un capo, con i conigli e le volpi rosso lacca. Il mondo cartoon trasportato sulle pellicce, come oggetti fuori controllo. Furono occasioni per segnare un territorio ma sono nate spontaneamente. Per me ogni collezione è un foglio bianco».
Ha a che fare con la sua passione per i cartoon?
«Ho sempre disegnato. Ero attratto dalle immagini sacre. Natività, Madonne, angeli, e dai cartoon giapponesi. Avevo anche una passione per Diabolik, Dylan Dog, e Walt Disney».
I suoi genitori l’hanno appoggiata?
«Sì. Non sono mai stato un ribelle, ero innamorato dei vestiti. Sono disciplinato. Sono un giovane vecchio».
Ha rimpianti?
«Uno, sì. Ho esordito dieci anni fa con un debutto di grande successo. Si parlava di questo marchio emerso dal nulla, con un’energia meravigliosa. Ma non l’ho percepita perché non avevo un team che leggesse il mio lavoro».
Com’è nata la prima collezione?
«Venti vestiti fatti a mano a Roma da una mia amica sarta. Dopo anni nella pelletteria fu un investimento personale. Ho sfilato a Parigi fuori calendario e il primo prêt-à-porter è arrivato dopo pochi mesi. Ma ho fatto incontri sbagliati. Un progetto avrebbe bisogno di cure, non di industriali che si credono investitori».
Per fortuna che è arrivato Lvmh, nel 2014.
«Mi conoscevano bene. Stavo per mollare ma Lvmh capì che sarebbe stato un peccato e avrei sofferto come creativo. Lavorare a Fendi – dove non ci sono limiti – e a Marco De Vincenzo dove ce ne sono tanti – mi piace moltissimo. Accelero e decelero, come se usassi due parti della mia creatività».
Come si promuove la moda oggi?
«Punto su quello che faccio. Posso credere che i vestiti facciano la differenza, provare a parlare di più. Ma questo ribaltamento deve trovare un equilibrio nuovo. Quando il progetto non c’è si muore».
Il suo brand non è morto.
«Se la mia storia è viva è perché c’è stato tanto prodotto. La qualità dipende dalla fatica. Io credo nella fatica. Concettuale e fisica. I progetti facili mi lasciano perplesso, ma se sei abile a comunicare, perché no?».
Cos’è quindi la moda per lei?
«Per me la moda è progetto, design. Mi infastidiscono i progetti in cui non intravedo la fatica. La creatività mi fa trasgredire regole che mai nella vita trasgredirei. La moda è la mia trasgressione».
Colleziona vestiti?
«Sono una Wunderkammer. Compro di tutto e, a volte, certi oggetti finiscono nelle collezioni. Nella Fall di Febbraio gli orecchini a forma di Bambi coperti di strass erano il rifacimento di una sculturina anni Quaranta che avevo comprato quindici anni fa».
E la collezione maschile come sarà?
«Sono attratto sia dal massimalismo sfrenato che dal concettualismo, altrettanto radicale, di Martin Margiela. L’uomo sarà un modo per comunicare i miei mondi in modo sintetico. Ci sarà la mia audacia e il freno inibitorio. Ma il punto di partenza del mio uomo è la materia».