il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2019
Un bel documentario su McEnroe
“Il profano non può percepire quello che succede dentro il giocatore”. Al Tennis come esperienza religiosa ci introdusse David Foster Wallace, complici l’ineffabile Roger Federer e uno Us Open da antologia, al tennis come esperienza epistemologica ci ammette il francese classe 1978 Julien Faraut, tramite il documentario John McEnroe – L’impero della perfezione. Il postulato è del sommo Jean-Luc Godard: “Il cinema può mentire, lo sport no”, le immagini in 16mm dirimenti, le conseguenze veridittive: stiamo guardando una partita di tennis o vedendo un film sul tennis? “Usando filmati in 16mm dell’Institut National du Sport et de l’Education Physique girati al Roland Garros all’inizio degli anni 80, ho cercato di mettere in risalto i momenti di verità che la competizione rappresenta”, spiega Faraut, ma quando McEnroe si oppone al dispositivo cinetelevisivo che succede? Quando minaccia il tecnico audio per un microfono troppo intrusivo, quando guarda in camera con dichiarata sfida, che ne è del cinema del reale e che ne è della realtà filmata?
Sebbene ne riproduca gli alterchi con i giudici e ne cristallizzi icasticamente i rovelli agonistici e il disagio al cospetto del pubblico, il regista non concentra la nostra attenzione sulla leggenda bizzosa del campione, piuttosto intende “mostrare McEnroe come uno sportivo professionista impegnato a realizzare l’unica cosa che veramente gli interessa sul campo da tennis: battere gli avversari”. E battere il tempo, la variabile che tutto può e nulla concede, sul campo come al cinema. Se a Miami 2014 il match tra Marko Nieminen e Bernard Tomic (6-0 6-1) si risolve in appena 28 minuti e 20 secondi, la durata – sottolinea la voce narrante di Mathieu Amalric – di un episodio di Alfred Hitchcock presenta, servono i tre capitoli del Padrino, per giunta intervallati da una pausa di un’ora, per conoscere il verdetto dell’incontro tra l’americano John Isner e il francese Nicolas Mahut che a Wimbledon 2010 gareggiarono per 11 ore e 5 minuti, ossia 70 game a 68.Come altrimenti negli anni 80 avrebbe potuto Serge Daney, direttore dei Cahiers du Cinéma, scrivere di tennis per Libération, se non assecondando il minimo comune denominatore, la durata? Quanto tempo occorre prima che compaia la parola “fine”? Quante possibilità per inventare il tempo? E non è, sempre con Daney, proprio l’invenzione del tempo il senso dei grandi film?
McEnroe non butta oltre la rete una pallina, bensì compete filosoficamente, raggiungendo nel 1984, quasi, la perfezione: il 96,5% di vittorie in una stagione, record ancora imbattuto. E non è un caso che siffatti interrogativi gnoseologici sorgano proprio dallo sport e dai campioni indagati attraverso il cinema, come già Zidane, un portrait du XXIe siècle, un documentario del 2006 di Philippe Parreno e Douglas Gordon: la bellezza del gesto, è tutto. Dal 6 maggio in sala, non perdetelo questo Impero.