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 2019  aprile 19 Venerdì calendario

La censura dei videogiochi

Lara Croft oggi si sentirebbe degradata a oggetto, con quel fisico tutto muscoli e quel seno tirato su al punto giusto. Dicono, in effetti, che sia nata così perché il pubblico dei videogame, notoriamente maschio e maschilista, ne avrebbe fatto la sua icona perfetta. E d’altronde, quando arrivò al cinema, il suo volto era quello di Angelina Jolie. Che sicuramente oggi non si presterebbe mai ad un’operazione tanto bieca.
Insomma: se leggete quanto sopra e annuite con convinzione, sappiate che nell’era del politically correct siete in grande compagnia. Anzi di più: con una grande Compagnia, proprio di videogame peraltro. Perché è notizia che pure la Sony, l’azienda giapponese produttrice della Playstation, ha ceduto all’ondata del Mee Too. Con la decisione che per difendere le donne da ignominiosi atti di supremazia maschile nella vita reale, si deve partire alla censura in quella virtuale. E dunque: non si può più dire, fare, baciare e adesso neppure giocare. La Sony ha deciso di mettere uno stop a tutti quei videogiochi in cui appaiono delle nudità femminili, pratica tra l’altro di uno strano Paese dove le donne vengono ritratte spesso svestite nei fumetti e nei cartoon (non a caso il genere Manga erotico spopola), ma dove l’atto sessuale viene considerato talmente riprovevole da essere pixellato perfino nei film pornografici. Insomma, seni al vento sì, ma con un pudore tutto orientale. Ma adesso anche più no, almeno secondo Sony, per la quale si è andati troppo oltre e soprattutto oltre confine, visto che i servizi di gioco on-line permettono di abbattere ormai tutte le barriere e di far vedere al mondo cosa gira sui server di Tokio e dintorni. Sarà forse questo il problema? Quindi ecco nuove linee guida per limitare la presenza di contenuti sessualmente espliciti nei videogame, una mossa che punta a tutelare la reputazione dell’azienda «ed evitare l’accusa di veicolare un’immagine degradante della donna». Giusto, certo. Però curioso. Se si considera che nel Paese del Sol Levante, in cui la donna è stata equiparata all’uomo soltanto dopo il Dopoguerra, ci sono ancora 5 cose considerate vietatissime al sesso femminile: 1) mantenere il proprio cognome dopo sposata (secondo la tradizione il marito dovrebbe essere chiamato «shujin», ovvero «padrone); 2) visitare il monte sacro Omine; 3) visitare l’isola sacra di Okinoshima; 4) partecipare ad alcune cerimonie Shinto; 5) preparare il sushi. I videogame, forse, vengono dopo.
Riassumendo: bisogna distinguere tra realtà e fantasia, tra sconcezza e arte, perché allora mettere una pecetta sopra la camicetta sempre stretta sulle rotondità sensuali di Fujiko Mina (la compagna sempre al limite dell’erotico di rapine di Lupin III nel famoso cartoon), sarebbe come mettere un reggiseno la Venere di Botticelli. Con eccessi per cui anche il videogame Battlefield V è stato messo nel mirino del Mee Too perché sono state promossi dei personaggi femminili al comando di battaglioni armati in uno scenario ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, quando le donne al massimo facevano le infermiere. In pratica: anche lì lo si fa per ammiccare, che poi ci si ammazzi pazienza. E intanto il buon senso è moribondo.
E mentre in Giappone parte la crociata digitale (e nonostante la Womeconomics dichiarata dal premier Abe), il Paese è 114esimo (su 144) nella classifica sull’eguaglianza di genere del World Economic Forum, le donne guadagnano in media il 25% in meno dei rispettivi maschili e solo il 9% dei seggi della Camera bassa del parlamento è occupato dalle signore. Problemi che aspettano delle soluzioni, come il fatto che solo il 4% delle vittime giapponesi denunci uno stupro. Ma, pensandoci bene, il rimedio contro certe atrocità ora l’hanno trovato: per difenderle in fondo basta spegnere la console.