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 2019  aprile 19 Venerdì calendario

I giochi cromatici di Scully

L’artista americano di origini irlandesi Sean Scully (1945) torna in Italia dopo la mostra al Macro di Roma di undici anni fa. Long light. Sean Scully a Villa Panza (sino al 6 gennaio 2020) è una retrospettiva organizzata dal Fai costituita da 80 opere realizzate tra il 1970 e il 2019 allestita dalla curatrice e direttrice della Villa, Anna Bernardini. Segue le mostre realizzate qui da Bob Wilson e Bill Viola e altri maestri. È un buon momento per Scully che in questi mesi espone anche Sea Star alla National Gallery di Londra e sarà con un progetto site-specific alla Basilica di San Giorgio Maggiore per la Biennale di Venezia. 
L’opera di Scully ben si adatta al gusto collezionistico che aveva Giovanni Panza. L’artista usa geometrie semplici, spesso rettangoli orizzontali colorati in equilibrio con la luce che generano particolari giochi cromatici. Le sue sono come finestre con addizioni di colori; la finestra e le texture dei muri sono gli archetipi dai quali muovono le sue opere, che si esplicitano in «geometrie analitiche, espressive e complesse». Le radici di Scully vanno cercate nell’Astrattismo ma anche nel Minimalismo, in Mondrian e Rothko e in un certo gusto per la gestualità. Il clima che evocano le sue opere è quasi Zen sebbene l’irlandese Scully abbia un rapporto profondo, ma dialettico, con la religione cattolica, «che aiuta a trovare la sacralità dell’essere umano», ma alla quale rimprovera «violenza e oppressione». Letteratura (specie James Joyce), teatro e musica sono soggetti di ispirazione. 
Il percorso espositivo,che è cronologico e tematico, parte dal primo piano con le «super-griglie» (come Backcloth) degli anni Settanta con trame di luce e creazione di spazi dinamici. Segue una sequenza di dipinti a olio realizzati tra il 1981 e il 2005 (come Any Questions), la serie Passenger (1999-2004), che sono lavori con «inserti» e, infine, fotografie, stampe e video che documentano i viaggi dell’artista. Chiude, al piano sotto del Varese corridor di Dan Flavin, una sequenza di dipinti a olio su lino e alluminio con la serie Madonna, degli inediti sul rapporto madre-figlio. 
Sono emblematici dei giochi cromatici creati dall’artista quelli che si generano con la serie di vetri colorati (Looking Outward) allestiti da Scully nella Orangerie della Villa, che rimarranno qui e che, a determinate ore del giorno, riflettono un arcobaleno di luci nella serra e sulle piante in essa custodite. Anche Wenders e Wilson lasciarono delle testimonianze della loro mostra in Villa. «Questo è un segno di amicizia e della vitalità di questa casa», ha ricordato il direttore generale del Fai, Marco Magnifico. 
Del resto, come aggiunto dall’architetto, già dirigente Mibac e ora assessore a Varese Roberto Cecchi, la Villa opera ora «come elemento propulsivo» anche con il Comune di Varese integrandosi nelle strategie sul territorio. Negli anni Ottanta, invece, le amministrazioni pubbliche non si fecero carico della collezione che Giuseppe Panza aveva già manifestato di voler donare. Se ne rammarica l’attuale sindaco, Davide Galimberti, perché «proprio quel filone culturale allora incompreso è quello che oggi, fortunatamente, ci consente di partecipare a una rete di cultura internazionale». Varese inaugurerà tra qualche settimana anche una mostra su Guttuso. 
Impegni 
L’artista espone anche Londra. Un suo progetto sarà a Venezia per la Biennale 
«Lavorare qui è stata un’esperienza molto diversa che esporre in una white box — racconta Scully, offrendo una traccia di lettura del suo lavoro e dell’esposizione —. Voi siete abituati a vedere le opere nelle vostre chiese, che sono nel Paese più bello del mondo. Ho riflettuto a lungo sui tre vostri artisti del Rinascimento: Michelangelo che è appassionato ed emozionale, Leonardo, che è più cerebrale e, in mezzo, Raffaello, che non è né maschile né cerebrale ma una specie di ponte, nel quale mi ci vedo bene. Io combino la razionalità della pittura geometrica con la tenerezza, la poesia e la malinconia del Romanticismo allo scopo di tenere insieme le due parti dell’animo umano». 
Ha fatto così anche nella vita – tra gravi lutti e ripartenze – e nelle scelte artistiche, che oscillano tra Minimalismo e Astrattismo: ha avuto un lungo sodalizio anche con il concettualista Robert Ryman, scomparso a New York due mesi fa. 
«Lavorare in Italia fa venir voglia di alzare bandiera bianca tanto è bella e, forse, il monocromo sarebbe una soluzione da proporre. Il mio lavoro è stato per sottrazione poi, una parte, anche di addizione, specie da quando mi avvicinai alla musica punk. L’arte – conclude – è qualcosa che deve stare out of the box, qualcosa che non deve essere esclusivo ed elitario. Non dico che l’arte debba essere come “Topolino”, ma voglio che parli a tutti».