La Stampa, 19 aprile 2019
Una mostra sulla storia della Gazzetta del Popolo
Quella sera del 1967, nella hall della Gazzetta del Popolo, vidi volare una sedia dal primo piano, lungo l’elegante scalone di marmo. Fragorosa bomba di legno, il suo schianto annunciava la fine del blocco del giornale che durava da 40 giorni, ma era il primo segno di una crisi che avrebbe minato alle fondamenta il grande quotidiano popolare che aveva contribuito a costruire l’Italia di Cavour e Garibaldi.
A far nascere la Gazzetta, nel pieno dei moti del 1848, erano stati un medico, Giovambattista Bottero, «ripetitore» al collegio universitario delle Province, e un intellettuale irrequieto, Felice Govean, nato in una famiglia che amministrava i beni dei Savoia-Carignano ma respirava l’aria giacobina e anticlericale che soffiava sull’Europa. Con loro il poeta Norberto Rosa e Alessandro Borrella, scrittore. Il contesto intellettuale era quello del positivismo torinese. I due amici frequentavano casa Lessona alla Venaria assieme ai fratelli Casalis, a Quintino Sella, a Costantino Nigra che faceva da ponte con i cavouriani.
La Gazzetta si dichiarò esplicitamente popolare fin dalla testata e dal prezzo (un soldo). Esordì col botto raggiungendo in pochi mesi le 14 mila copie (il Risorgimento di Cavour ne tirava 4 mila). E con grande spregiudicatezza appoggiò Gioberti e il suo tentativo di «confederare» l’Italia sotto l’egida del «Papa liberale» Pio IX. Si sa come finì: il Papa abolì lo Statuto, mentre Carlo Alberto lo mantenne grazie alla lungimiranza di Cavour.
La linea paternalista
Da allora il successo della Gazzetta del Popolo fu costante: appoggiò il conte nell’ascesa al potere, nelle guerre d’Indipendenza, nella scelta di Garibaldi e non di Mazzini, nell’avvio e nella conclusione della spedizione dei Mille. In parallelo il giornale teneva una linea che oggi si direbbe «paternalista» ma che allora era di fatto emancipatrice: appoggio alle società operaie di mutuo soccorso, battaglia per orari e ambienti di lavoro migliori, discussione politica aperta e militante, con indicazione chiara di chi doveva essere eletto in Parlamento. Sullo sfondo, ma ben presente, l’ambizione di migliorare la pubblica istruzione e formare la nuova classe dirigente, laica e moderata.
Con l’Unità d’Italia e la morte di Cavour, il duo Bottero-Govean si ruppe e il medico nizzardo rimase solo sulla plancia di comando fino alla morte (1897), rimpiangendo la scomparsa dello statista che gli aveva permesso di diventare «il re di Torino», come diceva sornione Vittorio Emanuele II.
In fondo al salone del primo piano della sede di corso Valdocco, la monumentale raccolta delle copie della Gazzetta del Popolo veniva esaltata da chi insegnava ai giovani a mettere punti e virgole al posto giusto (come tra gli altri raccontarono Giorgio Bocca e Piero Ottone).
A sfogliare quei volumi si scopriva, in un film sempre più concitato, che la Gazzetta, dopo l’appoggio a Crispi, osteggiò Giolitti e i socialisti. Il giornale imboccò una strada senza ritorno: dapprima il populismo per mantenersi vicina la piccola borghesia fatta di artigiani, impiegati, commercianti. Poi il nazionalismo interventista che portò il giornale ad appoggiare il partito della guerra. E, a guerra finita, l’appoggio ai reduci, agli agrari, ai «fasci», a Mussolini.
Il record di un milione di copie
La Gazzetta del Popolo, acquistata dalla Sip (elettricità e poi telefoni), venne guidata da Ermanno Amicucci dal 1928 al ‘39, con l’intento dichiarato di farne il quotidiano più moderno del regime. Si batteva ad armi pari con La Stampa e il Corriere della Sera. Nel 1930 inaugurava la sede di corso Valdocco 2 con una rotativa tedesca Man da 60 mila copie l’ora (ne tirò un milione il 9 maggio del ‘36 alla proclamazione dell’Impero) e una redazione in grado di realizzare il «settimanale-quotidiano» che Amicucci aveva intravisto in Paris Match.
Quindi: politica il minimo dovuto, grandi inviati di attualità, decine di rubriche dalla moda alla cucina alla vita all’aria aperta. E quel «Diorama letterario» guidato da Lorenzo Gigli - che vide tra le altre le penne di Bontempelli, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Moravia, Comisso, Saba, Valéry - che fu poi il passaporto di Amicucci per evitare la condanna a morte nel dopoguerra.
Nel 1945 la Gazzetta fu sospesa dal Cln fino al 24 luglio, quando in corso Valdocco ripresero la pubblicazione molti quotidiani: il Sempre Avanti!, socialista, il Popolo Nuovo (Dc), l’edizione piemontese dell’Unità, Tuttosport.
Radicato nella provincia
La Gazzetta viene riassegnata ai liberali con un comitato di garanti guidato da Einaudi e diretta da Massimo Caputo fino al 1953, quando la Dc, attraverso l’industriale senatore Teresio Guglielmone, ne prende il controllo. Da allora il giornale segue il destino del partito, con punte di grande qualità. Francesco Malgeri fa nascere le edizioni provinciali che lo radicheranno nella provincia piemontese; il grande Arturo Chiodi, allievo di don Primo Mazzolari, ne fa un giornale cattolico-popolare con attualissime inchieste sull’immigrazione e il disagio sociale.
E si arriva a quel 1967 in cui la Dc - direttore Giorgio Vecchiato - iniziò il progressivo disimpegno dai quotidiani che culminerà nel ’74 con l’annuncio di chiusura e l’autogestione decisa da giornalisti e tipografi attraverso una cooperativa che resse il giornale con l’aiuto dei sindacati. Ma ancora, nella redazione così in difficoltà, continuarono a crescere fior di giornalisti che si ritroveranno, dopo le chiusure del 1981 e quella definitiva del 1983, alla Rai come al Corriere, a Repubblica come alla Stampa. Nel segno di una scuola sempre valida che la mostra, con il suo catalogo ragionato, illustra.