La Stampa, 19 aprile 2019
Braccianti adescati sui social per tre euro l’ora
«Quello che non dimenticherò sono quegli occhi pieni di disperazione e rassegnazione che chiedevano aiuto». Sono lavoratori della nostra civile Europa ridotti in schiavitù, ammassati come bestie in cascine abbandonate nella pianura del Metaponto quelli che appaiono alla vista del maresciallo del nucleo carabinieri ispettorato del lavoro di Matera, Rocco D’Angelo. Una storia di caporalato come se ne vedono sempre di più nei campi e nei cantieri edili sparsi lungo lo Stivale. Da un lato è una storia di italiani senza scrupoli, pronti a sfruttare chi fugge dalla disperazione in cui annegano anche paesi dell’Ue, come la Romania. Dall’altro racconto di un’Italia solidale, che alzato il velo sui campi-lager fa a gara per stipulare regolari contratti di lavoro a chi fino a ieri era costretto a spezzarsi la schiena nella raccolta di frutta e pomodori per pochi spiccioli l’ora.
Ma i fatti dicono più delle parole. Tutto parte da una pagina Facebook che in Romania offre lavoro in Italia. La paga è irrisoria, tre euro e mezzo l’ora come bracciante agricolo. «Ma meglio una paga da fame che niente» raccontano al maresciallo D’Angelo le vittime del caporalato. Così dal 2014 al 2018 oltre 200 tra uomini e donne romeni pagano 150 euro all’intermediario di Bucarest più altri 100 per il pullman che li porterà in Italia. Dove li aspetta una vita da incubo. Ad accoglierli c’è un’organizzazione criminale, capeggiata da una donna italiana e un uomo romeno. Anche se poi saranno in 17 a essere arrestati dai carabinieri. In un appartamentino a Scanzano ionico «Liliana Martinez», come si fa chiamare la boss, tiene il briefing. La retribuzione - spiega loro - sarebbe stata ancora inferiore: 3,15 euro l’ora, senza limiti di orario, tanto che si arrivava poi a lavorare minimo 18 ore al giorno. Per la spesa 25 euro trattenuti a settimana dalla gang per acquistare cibo ed effetti personali in un centro commerciale dove i lavoratori schiavizzati venivano portati con un furgone, senza libertà di scelta. In più altri 120 euro di fitto mensile «per dormire fino a dieci persone in stanze di pochi metri quadri, con un solo bagno e muffe alle pareti», racconta il maresciallo.
Botte ed estorsioni
Per chi voleva consolarsi con una sigaretta bastava chiedere a Liliana: 4,80 euro per un pacchetto di contrabbando made in Bulgaria. E dopo il lavoro chiusi nelle cascine, per evitare che le forze dell’ordine scoprissero il mercato degli schiavi. Costretti a subire percosse ed estorsioni. Come quella ai danni di Dochia, la bracciante alla quale sono state sottratte due buste-paga di 429 euro sotto la minaccia di non farla lavorare più. O i 200 euro estorti ad altri braccianti per avere una carta d’identità necessaria ad aprire un conto corrente, ai quali poteva però attingere quando voleva il duo criminale italo-romeno. Tutto con la collaborazione di un impiegato comunale corrotto, che rilasciava i documenti senza che ci fosse il trasferimento della residenza anagrafica. E di un sindacalista, che consegnava alla banda criminale i moduli per ottenere dall’Inps le indennità previdenziali e assistenziali, che finivano nelle tasche dei boss all’insaputa dei poveri lavoratori. Costretti a firmare documenti in italiano senza capirne nemmeno il contenuto. Una volta liquidate le pratiche, grazie anche alla complicità di una incaricata del patronato sindacale, gli importi venivano accreditati dall’Inps sui conti correnti dei braccianti romeni, ai quali però l’implacabile Liliana tratteneva dalla busta paga i 120-150 euro corrispondenti al valore degli indennizzi.
Il sistema criminale
Un sistema che in poco più di quattro anni ha fruttato alla banda un milione e 377mila euro. Ma che ha fatto arricchire anche le quattro aziende agricole di imprenditori senza scrupoli, pronti ad «affittare» i lavoratori-schiavi senza versare i contributi e con paghe nettamente al di sotto dei minimi contrattuali. Uomini e donne stremati da giornate lavorative infinite, senza diritto a pause e servizi igienici. Costretti a fare i bisogni a cielo aperto.
Oggi buona parte di quei braccianti lavora nei campi vicini, con regolari contratti di lavoro. Stipulati da altri imprenditori onesti impegnati in una gara di solidarietà che ci fa vergognare un po’ meno di essere italiani.