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 2019  aprile 18 Giovedì calendario

Intervista al figlio di Salvatore Quasimodo

«Non era un padre presente ma ha dato tanto all’umanità». Ricorrono 60 anni dalla consegna del Nobel per la Letteratura al poeta e traduttore Salvatore Quasimodo. Suo figlio Alessandro, attore, regista e scrittore, lo racconta: amori e dissidi di un «uomo del suo tempo».
La Sicilia, la ferrovia e poi il terremoto. La vita in un vagone. Quanto ha inciso l’infanzia nella lirica quasimodiana? 
Moltissimo. Nella poesia Al padre c’è tutto. L’infanzia gli è stata sottratta. A causa del terremoto, ha vissuto in un carro bestiame con la famiglia. Senza luce né acqua. Quel senso di tristezza, di difficoltà a rapportarsi agli altri, è stato anche la molla che ha dato origine alla sua poesia. Per fortuna c’è stato il periodo dell’istituto fisico matematico Jaci. Ha avuto un professore di Lettere eccezionale, Federico Rampolla del Tindaro, che gli faceva leggere Dostoevskij, Verlaine e Rimbaud.
Che tipo di padre era? 
È stato molto latitante, a differenza di mia madre. Quando sono andato a vivere a Siracusa a casa dei genitori di Elio Vittorini, marito della sorella di mio padre, mi è venuta voglia di avvicinarmi a lui attraverso la sua opera. Non era uno che mi comprava il gelato, non mi portava alle giostre. L’unica volta che gli ho chiesto aiuto è stata a scuola: dovevo comporre un sonetto sul Natale. Lo abbiamo trasformato insieme in endecasillabi. La mia non era una famigliola come questa che vorrebbero i leghisti. Mio padre lavorava di notte e finiva all’alba. Dormiva poche ore. I nostri orari non coincidevano.
Non con tutti i poeti dell’epoca ebbe rapporti facili. Com’era quello con Eugenio Montale?
Montale scrisse un articolo bellissimo su Solaria, però poi ne fece scrivere uno terribile sul Corriere. La storia è di una bassezza strepitosa. Si passa da una stima reciproca, testimoniata dalle lettere che sono state pubblicate, a un’ostilità palese. Il rapporto con Montale è cominciato quando mio padre è arrivato a Firenze da Elio Vittorini. Ha ricevuto il premio “Antico Fattore”, che l’anno prima era stato di Montale. Poi, durante la guerra, la raccolta Ed è subito sera è arrivata a tre edizioni. Questa cosa a Montale non è andata giù ed è uscito un articolaccio sul Corriere. Mio padre ha risposto con la poesia A un poeta nemico. Da allora i rapporti non sono più stati ottimali, si incontravano qualche volta alle feste di Arnoldo Mondadori.
Quello con Giorgio La Pira invece fu un sodalizio. Perché?
C’era grande intimità tra loro. Andavano assieme a scuola. Erano in sintonia, cristiani e di sinistra. Si erano illusi, dopo la guerra, di rifondare la società, di rifare l’uomo come diceva mio padre, che oggi sarebbe sgomento. Era uno coerente e non si curava dell’appartenenza politica.
C’è nella poesia di suo padre l’eco dei poeti precedenti? 
Dante, Leopardi sicuramente, anche Pascoli e D’Annunzio. I cosiddetti crepuscolari e Gozzano. Nell’articolo pubblicato su Letteratura nel 1939 dopo la morte di D’Annunzio, scrisse: “Noi gli fummo avversi non per mancanza d’amore”. Per Quasimodo Alcyone era uno dei più importanti libri della letteratura italiana, come anche Il Notturno.
Quasimodo, poeta e traduttore. Che ruolo ha avuto la traduzione nella sua vita?
Nel periodo in cui ha conosciuto mia madre, Maria Cumani, ha scoperto la musica e la danza. Il loro legame è durato 22 anni e ha influito sulla sua produzione. Ha sempre sostenuto che solo i poeti possono tradurre altri poeti. In quel periodo, Saffo, Archiloco, i lirici greci erano il pane quotidiano. Poi ha affrontato Shakespeare. Nel caso di Neruda, invece, è stato il cileno a sceglierlo, perché era l’unico poeta vicino al suo mondo, impegnato nel sociale.
Com’era il rapporto tra lui e sua madre? 
Quando si è messo a tradurre i lirici greci, lavorava di notte. Se non trovava un sinonimo che lo convincesse, la teneva sveglia fino a quando non individuava la parola giusta. Neruda è stato tradotto quasi interamente da mia madre, perchè conosceva lo spagnolo. Aveva trovato in lei una compagna alla pari.
Il Nobel è arrivato nel 1959. Se lo aspettava? Che ricordi ha di quel momento?
Sì, perché l’anno prima l’Accademia di Svezia aveva raccolto materiale su di lui e mio padre ne era a conoscenza. Quando ha vinto il Nobel avevo 18 anni. In quel momento mia madre decise di separarsi perché lui andò a ritirarlo con un’estranea. Non ho risentimenti. Ma le cose negative non le cancelli, restano. Mio padre non va mitizzato. Era un uomo del suo tempo – come diceva lui stesso – e ha dato moltissimo all’umanità.
Lei ha venduto per 100 mila euro la medaglia del Nobel. Perché?
Ho ritenuto che non fosse così importante, perché il Nobel nessuno glielo avrebbe tolto. L’aveva lasciata in eredità alla sua amante con uno scritto autografo. Lei se l’è venduta a fine anni 80. L’ho ricomprata da un numismatico di Milano e l’ho pagata 30 milioni di lire. Era doppiamente mia. Non l’ho ereditata, l’ho comprata