Nel disco ci sono solo diciassette canzoni, ci sarà un sequel?
«Dovremmo farlo, ora che ci penso. Dovrò chiedere (chiude gli occhi, solleva il capo, indica il cielo)…».
Al suo supervisore?
«…Già, al mio divino supervisore».
Sarà uno degli artisti di punta nell’evento che celebra il cinquantennale di Woodstock. È pronto a scatenarsi di nuovo?
«Andrà meglio di allora, perché questa volta non ho paura, ho una certa pratica, una maggiore lucidità mentale e la stessa energia».
Ci saranno jam session?
«Ne abbiamo cominciato a parlare, perché no? Di certo suonerò con Manu Dibango e Sting.
Una deliziosa follia».
Il primo Wookstock creò un’immagine indelebile di Carlos Santana, potente e mistica: occhi chiusi, volto rivolto al cielo in un’espressione di beatitudine. Dove la trasporta la musica?
«La musica non mi trasporta, mi eleva, mi fa salire in modo evidente verso un posto che puoi raggiungere solo se sei pienamente convinto di quello che stai facendo, mi lascia fluttuare liberamente senza limiti né imposizioni; è un momento molto delicato».
Un percorso spirituale…
«Lo chiamerei più propriamente un percorso di guarigione, persino più efficace della psicoterapia. Ho iniziato molto precocemente a interessarmi a tutte quelle cose che potessero allargare il mio orizzonte per scorgere il grande disegno divino».
Data l’euforia e le dilatazioni sensoriali causate dall’acido lisergico, ha ricordi vividi di Woodstock o solo frammenti di memoria?
«Ricordo i colori, gli odori, le visioni che avevo quando chiudevo gli occhi, il suono che sembrava arrivare dall’esterno, entrava nelle mie dita, si diffondeva attraverso gli amplificatori, arrivava alla gente e infine mi ripiombava addosso. E io lì frastornato: hey, ma non starò andando troppo oltre?».
In una delle ultime interviste a Repubblica ci disse che a settant’anni si sarebbe ritirato. Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Probabilmente mia moglie Cindy (Blackman, percussionista della band) con la sua olimpica, meticolosa disciplina, fisica e mentale; è come vivere con Bruce Lee alle calcagna. La sua energia mi dà la forza di sfidare l’impossibile. Molti dicono che oggi sembro più giovane di anni fa. Merito della musica: è ancora un modo efficace per connettere l’assoluto con il cuore della gente».
L’approfondimento delle religioni e delle filosofie orientali è stato un modo di invecchiare più serenamente?
«Non c’era bisogno di cercare tanto lontano, perché anche la nostra religione esprime gli stessi sentimenti. Si dice che le predicazioni di Gesù abbiano raggiunto mezzo mondo, che sia stato in Grecia, a Roma, e persino in India. Non ci sono racconti sulla vita di Cristo dall’adolescenza ai trent’anni. Cos’ha fatto in tutto quel tempo? Di sicuro è stato il primo hippie» .
La canzone “Los Invisibles”, che anticipa l’album, è ispirata all’emergenza rifugiati?
«Esattamente. Ma gli invisibili sono anche quelli che lavano i piatti, cambiano la biancheria, puliscono le latrine, badano ai bambini e agli anziani, fanno i giardinieri.
Selena (icona della musica latina assassinata a 23 anni, nel 1995) diceva: “Io esprimo i sogni e le aspirazioni della mia gente”. Io dico: esprimo i sogni e le aspirazioni del mondo intero, perché tutti contribuiscono a far girare la ruota, a alimentare sentimenti di empatia e compassione e onestà — senza bisogno di muri. Dobbiamo trasformare la faccia della paura: combattere avidità, ignoranza e oscurità con il potere della preghiera; questo è la musica, es un encanto (dice in spagnolo), viene da dentro, come la preghiera. Il mio messaggio è lo stesso di John Lennon, Marvin Gaye, John Coltrane e Bob Marley: vogliamo guarire il mondo con grazia, eleganza e creatività».
Anche lei fu un “invisible”, quando da Tijuana arrivò a San Francisco, prima di trovare nella musica una risorsa materiale e spirituale. Sarebbe stato un viaggio ben più tormentato nell’America di Trump.
«Lyndon B. Johnson, Richard Nixon, Ronald Reagan, Donald Trump… lo stesso uomo, maschere diverse. Non vedo risorse nella politica, solo nell’incessante interazione tra gli umani e gli arcangeli».
Come giudica il mondo della musica nell’era dei talent show?
«Le gare musicali ci sono sempre state. Alla gente piacciono le competizioni, di qualsiasi tipo, football, automobilismo, canzoni.
Mettiamola così: un vincitore è un vincitore, anche quando perde; un perdente è un perdente, anche quando vince».