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 2019  aprile 18 Giovedì calendario

Intervista a Carlos Santana

Quando non gli vengono le parole, si mette a mani giunte, chiude gli occhi, alza la testa al cielo e chiede aiuto a un sé che è altrove. Un metodo, un’elevazione, una preghiera che Carlos Santana, 71 anni, ha appreso attraverso la musica. Lo racconta anche nell’autobiografia Suono universale (Ed. Mondadori): non avrebbe mai superato i traumi — gli atti di bullismo subiti da adolescente immigrato, le molestie da parte di un gringo quando aveva undici anni, il difficile rapporto con la madre che invece di sostenerlo lo fece sentire responsabile di quegli abusi — se la chitarra (e in qualche caso l’Lsd, di cui ancora sostiene i benefici) non fosse diventato uno strumento per canalizzare le proprie energie verso l’alto e verso gli uomini. Lo dimostrò precocemente a Woodstock, quando fece ondeggiare quattrocentomila persone sulle note di Soul sacrifice, celebrando quell’indissolubile matrimonio tra rock e musica latina che avrebbe dato frutti sorprendenti.
Quest’anno a Woodstock ci tornerà da veterano, a celebrare i cinquant’anni dell’evento che ha allargato a dismisura gli orizzonti del rock (il 16 agosto a Watkins Glen, prima data di una tre giorni, poi il 17 nella manifestazione concorrente di Bethel Woods, a tre ore di distanza), forte dell’entusiasmo che l’ha sostenuto durante le registrazioni del nuovo album, Africa speaks (Ed. Concord, in uscita il 7 giugno), prodotto da Rick Rubin e realizzato con le potenti voci afro di Buika e Laura Mvula — il coronamento di mezzo secolo di carriera: dieci Grammy Award, tre Latin Grammy, 100 milioni di dischi venduti (30 con l’album Supernatural, 1999; la riconsacrazione a trent’anni da Woodstock). Dicono che lavorare con Rick Rubin faccia la differenza, ma in questo caso, data la decennale militanza di Santana nel mondo del rock, il produttore sarà stato poco più di un angelo custode. «Mi piace la definizione, gli angeli custodi suggeriscono, non impongono, la loro influenza non è mai invadente. La presenza di Rick è stata una benedizione, è molto garbato, rispettoso, autorevole, divertente. Si è fidato di noi, si è lasciato trasportare in una dimensione… latte e miele. Non volevamo cambiare i contenuti, solo la narrazione, e questo giustifica la scelta. È stato un momento creativo torrenziale, sembravamo un branco di leoni affamati, abbiamo registrato quarantanove canzoni in dieci giorni. Il contributo del produttore è stato decisivo per cristallizzare quel flusso di energia. Insieme abbiamo creato una sorta di cospirazione per un dolce sabotaggio spirituale; una musica con una vibrazione risonante; una frequenza che accelera il risveglio globale delle coscienze».
Nel disco ci sono solo diciassette canzoni, ci sarà un sequel?
«Dovremmo farlo, ora che ci penso. Dovrò chiedere (chiude gli occhi, solleva il capo, indica il cielo)…».
Al suo supervisore?
«…Già, al mio divino supervisore».
Sarà uno degli artisti di punta nell’evento che celebra il cinquantennale di Woodstock. È pronto a scatenarsi di nuovo?
«Andrà meglio di allora, perché questa volta non ho paura, ho una certa pratica, una maggiore lucidità mentale e la stessa energia».
Ci saranno jam session?
«Ne abbiamo cominciato a parlare, perché no? Di certo suonerò con Manu Dibango e Sting.
Una deliziosa follia».
Il primo Wookstock creò un’immagine indelebile di Carlos Santana, potente e mistica: occhi chiusi, volto rivolto al cielo in un’espressione di beatitudine. Dove la trasporta la musica?
«La musica non mi trasporta, mi eleva, mi fa salire in modo evidente verso un posto che puoi raggiungere solo se sei pienamente convinto di quello che stai facendo, mi lascia fluttuare liberamente senza limiti né imposizioni; è un momento molto delicato».
Un percorso spirituale…
«Lo chiamerei più propriamente un percorso di guarigione, persino più efficace della psicoterapia. Ho iniziato molto precocemente a interessarmi a tutte quelle cose che potessero allargare il mio orizzonte per scorgere il grande disegno divino».
Data l’euforia e le dilatazioni sensoriali causate dall’acido lisergico, ha ricordi vividi di Woodstock o solo frammenti di memoria?
«Ricordo i colori, gli odori, le visioni che avevo quando chiudevo gli occhi, il suono che sembrava arrivare dall’esterno, entrava nelle mie dita, si diffondeva attraverso gli amplificatori, arrivava alla gente e infine mi ripiombava addosso. E io lì frastornato: hey, ma non starò andando troppo oltre?».
In una delle ultime interviste a Repubblica ci disse che a settant’anni si sarebbe ritirato. Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Probabilmente mia moglie Cindy (Blackman, percussionista della band) con la sua olimpica, meticolosa disciplina, fisica e mentale; è come vivere con Bruce Lee alle calcagna. La sua energia mi dà la forza di sfidare l’impossibile. Molti dicono che oggi sembro più giovane di anni fa. Merito della musica: è ancora un modo efficace per connettere l’assoluto con il cuore della gente».
L’approfondimento delle religioni e delle filosofie orientali è stato un modo di invecchiare più serenamente?
«Non c’era bisogno di cercare tanto lontano, perché anche la nostra religione esprime gli stessi sentimenti. Si dice che le predicazioni di Gesù abbiano raggiunto mezzo mondo, che sia stato in Grecia, a Roma, e persino in India. Non ci sono racconti sulla vita di Cristo dall’adolescenza ai trent’anni. Cos’ha fatto in tutto quel tempo? Di sicuro è stato il primo hippie» .
La canzone “Los Invisibles”, che anticipa l’album, è ispirata all’emergenza rifugiati?
«Esattamente. Ma gli invisibili sono anche quelli che lavano i piatti, cambiano la biancheria, puliscono le latrine, badano ai bambini e agli anziani, fanno i giardinieri.
Selena (icona della musica latina assassinata a 23 anni, nel 1995) diceva: “Io esprimo i sogni e le aspirazioni della mia gente”. Io dico: esprimo i sogni e le aspirazioni del mondo intero, perché tutti contribuiscono a far girare la ruota, a alimentare sentimenti di empatia e compassione e onestà — senza bisogno di muri. Dobbiamo trasformare la faccia della paura: combattere avidità, ignoranza e oscurità con il potere della preghiera; questo è la musica, es un encanto (dice in spagnolo), viene da dentro, come la preghiera. Il mio messaggio è lo stesso di John Lennon, Marvin Gaye, John Coltrane e Bob Marley: vogliamo guarire il mondo con grazia, eleganza e creatività».
Anche lei fu un “invisible”, quando da Tijuana arrivò a San Francisco, prima di trovare nella musica una risorsa materiale e spirituale. Sarebbe stato un viaggio ben più tormentato nell’America di Trump.
«Lyndon B. Johnson, Richard Nixon, Ronald Reagan, Donald Trump… lo stesso uomo, maschere diverse. Non vedo risorse nella politica, solo nell’incessante interazione tra gli umani e gli arcangeli».
Come giudica il mondo della musica nell’era dei talent show?
«Le gare musicali ci sono sempre state. Alla gente piacciono le competizioni, di qualsiasi tipo, football, automobilismo, canzoni.
Mettiamola così: un vincitore è un vincitore, anche quando perde; un perdente è un perdente, anche quando vince».