Il Messaggero, 18 aprile 2019
Martin Amis contro tutti
«Gli scrittori dovrebbero venire dal nulla. Ma ormai è andata così, che ci posso fare?» Martin Amis è uno degli scrittori britannici più acuti e iconoclasti del nostro tempo; con un padre (Kingsley Amis) autore già affermato, e una matrigna del calibro di Elizabeth Jane Howard (sua la saga dei Cazalet), non poteva che affermarsi nella narrativa, con romanzi come Il treno della notte, o l’ultimo dedicato all’Olocausto, La zona d’interesse. Ma Amis è anche un grande saggista, un inviato con un gusto speciale per l’ironia e il paradosso, come prova la raccolta appena pubblicata da Einaudi, L’attrito del tempo. In questi articoli scritti per il New Yorker al tempo di Tina Brown, per il Guardian, o per il New York Times, finora inediti in Italia, lo scrittore guarda alla realtà con un punto di vista intelligente e colto, spesso controcorrente, allergico alle mode. Poiché, scrive nell’introduzione, il «secolo americano» è ormai vicino all’esaurimento, il compito dello scrittore resta ancora «quello di misurare la temperatura dell’America, controllarle delicatamente il polso, mentre il Nuovo Mondo segue il Vecchio sulla via del declino».
IL FENOMENO Anche per questo i reportage americani sono pagine esemplari. Il fenomeno Trump viene esaminato con la precisione di un anatomista, di uno psicanalista alle prese con un paziente sul lettino, in un testo scritto poco prima della sua travolgente affermazione. Se la mendacità del presidente, ragiona l’autore, supera il 90 per cento (e quindi «l’uomo che dice le cose come stanno in realtà quasi sempre dice le cose come non stanno»), si può ipotizzare un «disturbo narcisistico della personalità». Amis (il cui cuore batte tiepidamente a sinistra) non resiste a bacchettare The Donald sul piano a lui più familiare, la lingua: se quando parla «ogni frase contiene in genere otto o nove errori», quando scrive fa qualcosa di più sottile: evita quell’ingrediente fondamentale «che va sotto il nome di contenuto». Amis riesce a scorgere anche la vera ragione del successo di Trump: liberarsi «dei ceppi del politicamente corretto». Più o meno la metà degli americani, sostiene, vuole un candidato che non capisca niente di politica e non abbia bisogno di imparare, perché tanto «la vecchia politica morirà il giorno del suo insediamento».
PULP FICTION Un pezzo da incorniciare è l’intervista a John Travolta, appena miracolato da Quentin Tarantino, che porta Amis sul set di Get Shorty, e lo fa sedere sulla sedia da regista di Barry Sonnenfeld. Un attore che sembra l’antitesi della star, gentile e sempre pronto a firmare autografi, anche alle comparse minacciate di ritorsioni: «Tranquilli, nessuno vi licenzierà». La sua carriera è ripartita alla grande, eppure non ne voleva proprio sapere di girare Pulp Fiction: «I miei dubbi non erano di natura artistica, ma morale», poiché viviamo in un’epoca in cui gli spettatori sono facilmente suggestionabili, dice Travolta all’attonito inviato. Ma l’America è anche la terra di Las Vegas, la città del peccato in cui lo scrittore arriva per partecipare ai campionati mondiali di poker, e con la seria intenzione di vincerli (anche grazie ai fondi di uno sponsor). Perderà, naturalmente, «per colpa di un tris di cinque».
DISCESA AGLI INFERI In Pornoland, l’autore si immerge (letteralmente) nel mondo del cinema per adulti, dove «le ragazze si bruciano nel giro di nove mesi, un anno». Un mondo con regole crudeli, che rappresenta però, scrive Amis, «una fetta di mercato più ampia della musica rock e molto più ampia di quella di Hollywood». Parafrasando Falstaff: «Chi mette al bando la pornografia mette al bando il mondo intero». La ventiseienne Chloe, che accompagna lo scrittore in questa discesa agli Inferi, è una sorta di gladiatrice, che forse un giorno riuscirà «a riconquistare la sua libertà».
Il ritratto di Jeremy Corbyn, «capo dell’opposizione di Sua Maestà», è irresistibile. Il leader laburista, fautore della sinistra dura e pura, diventa Carbon the Copy Cat, dal titolo di una canzone dedicata a un gatto copione che Amis ascoltava da bambino. Un uomo, in breve, insufficientemente istruito, privo di senso dell’umorismo e non in grado di afferrare il carattere nazionale. «Tu vorresti i plebei al potere», scherza Amis con un altro oltranzista, Christopher Hitchens (scomparso nel 2011), «non un governo che parli a loro nome e che difenda i loro interessi, ma proprio loro al governo».
IDOLI Molti articoli sono destinati agli idoli letterari dell’autore, in primis Vladimir Nabokov e Saul Bellow, ma anche Don DeLillo, Philip Roth, John Updike. Paradossale l’incontro con quest’ultimo, durante un ricovero in ospedale (Updike è morto nel 2009 per un tumore). «Oddio», esclama lo scrittore iperattivo e raggiante, «siamo circondati da ogni sorta di americani malati!». Ma è Nabokov il massimo idolo, l’inarrivabile modello, a cui pure riserva qualche stoccata: «L’innegabile proliferare di ninfette» nei suoi libri «non è un problema morale, ma estetico. Semplicemente, ce ne sono troppe».
Amis cerca sempre di raggiungere l’essenza dei personaggi che racconta, con dettagli fulminanti. Anche quando questi diventano, suo malgrado, irraggiungibili. Alla pubblicazione di El Diego, l’autobiografia di Maradona, lo scrittore parte per Cuba, dove el pibe de oro cerca di disintossicarsi dalla cocaina. Ma la risposta del manager alla richiesta di intervista arriva direttamente dal telegiornale della sera: «Il paziente era tutto intubato come un astronauta e non poteva ricevere nessuno». In fondo, ciò che conta in un viaggio è il percorso, non l’arrivo.