18 aprile 2019
In morte di Massimo Bordin
Mattia Feltri per La Stampa
Non c’è mai un tempo buono per morire, soprattutto se si muore in anticipo, come è toccato ieri a Massimo Bordin. Aveva sessantasette anni. Era la voce di Radio Radicale. Non c’è mai un tempo buono per morire, ma qualche volta ci si chiedeva a chi stesse parlando ancora Massimo Bordin, perché lui capiva il linguaggio dei potenti di oggi, nonostante non fosse il suo linguaggio, ma loro non potevano capire lui. E noi, fragile mondo di mezzo, ci eravamo aggrappati alla sua voce, al suo microfono, alla sua rassegna stampa mattutina, alle sue conversazioni con Marco Pannella come a uno sperone sullo strapiombo.
Ma quanto potranno capire di tutto questo i potenti di oggi? Come si spiega a un Paese sperduto e digrignante, sentenziante, famelico di un abracadabra qualunque esso sia, che la vita è politica, e la vita e la politica sono una disastrosa complicazione, una ricerca affannata del pertugio giusto, un errore via l’altro, e non c’è soluzione magica, quella è illusione, roba da fattucchieri? Come glielo si spiega, ora che siamo uno di meno, e quell’uno aveva il calibro di Massimo Bordin? Eravamo aggrappati da decenni a lui, alla radio, a Marco Pannella, dagli anni della Prima Repubblica in cui schierarsi in politica era affiliazione fideistica - cioè per un sentimento anteriore e superiore alla ragione - al grande partito della Chiesa, la Dc, e alla grande Chiesa dei partiti, il Pci.
Lui, la radio e Marco Pannella continuavano a frequentare una politica per cui nulla fosse anteriore e superiore alla ragione, e dunque una politica cosciente dei limiti e delle contraddizioni.
Come si spiega a un Paese sperduto che cosa significa restare saldi nella precarietà del raziocinio? Massimo Bordin sapeva che l’eterno fascismo italiano è stato la rinuncia a usare la testa, tutti ad ascoltare i battiti del cuore e i sommovimenti della pancia, lasciar salire gli umori non oltre la bocca per un urlo da stadio, il tifo, la soluzione definitiva e salvifica dell’ultimo irrimediabile condottiero, a destra, a sinistra. Massimo Bordin sapeva che la libertà ha un piccolo cagionevole significato soltanto se è decidere per sé, se è l’esercizio della propria fallibilità, e dunque dissentiva, contestava, ironizzava anche davanti a Marco Pannella. Massimo Bordin sapeva, durante gli anni della Seconda repubblica, quando era indispensabile scegliere una parte o l’altra, di volta in volta, che il compromesso è sempre al ribasso e non è mai un cedimento ma un centimetro guadagnato, ed è l’essenza stessa della politica se rifiuta di essere autoritaria.
Sapeva che la politica non è mai innamorarsi di un’idea, è semmai distaccarsene per valutarla meglio nel momento stesso in cui la si sposa. Sapeva che una società funziona soltanto se il più profondo dei convincimenti si arresta davanti alle barriere che l’uomo si è dato, ad argine dell’arroganza delle proprie verità, a tutela dunque di sé oltre che degli altri, e cioè le regole istituzionali, il rigore dei ruoli di Stato, l’autolimitazione quando si ha la responsabilità di tutti e non soltanto del proprio recinto politico. Sapeva che il consenso non è il fine unico della politica, perché la politica è la capacità di dire quello che si ritiene giusto e non quello che si ritiene gradito: quando il consenso diventa il fine unico della politica, la politica muore.
Sapeva che il diritto, inteso come amministrazione della giustizia, è filosofia, perché ricerca direttamente il cuore dei rapporti umani, arriva a definire l’inviolabile unicità dell’essere umano, anche quando è l’ultimo degli ultimi, cioè il più disprezzabile dei colpevoli, e pertanto il diritto non è mai vendicativo perché, quando produce vendetta, il diritto muore. Sapeva che la purezza è la voce dei folli, solamente la contaminazione è corroborante, incontrare l’avversario, tendergli il microfono, dargli fiato. Sapeva che tutto è così vano, inutile, e quel pochissimo di concreto su cui ci è dato di sostenerci poggia sulla memoria, sugli archivi, sui libri, su quello che è stato scritto e detto, su quanto l’uomo ha concepito nel disperato tentativo di aiutare l’uomo, e che l’uomo senza memoria è un uomo perduto nel suo vacuo delirio che non ha nulla su cui sostenersi. Sapeva, in definitiva, che la vita è politica, e la vita e la politica senza un’ambizione di cultura sono la rinuncia a essere uomini per partecipare alla storia degli uomini.
Ma come si spiega tutto questo a chi pensa che tutto questo debba misurarsi con l’analisi costi benefici? Che Radio Radicale o si regge sulle sue gambe o chiude? Che sia una questione di mercato? In che lingua glielo si spiega ai nuovi potenti? Noi siamo rimasti aggrappati a Massimo Bordin, a Radio Radicale, a Marco Pannella per decenni, noi radicali, noi liberali di destra e di sinistra, noi socialisti libertari, noi cattolici liberali, noi atei devoti, noi repubblicani, noi laici, noi anarchici, noi poveri apolidi, noi alla ricerca di un posto dove sapere qualche cosa di più, e non di un riparo dove mettere in sicurezza l’ultima confortante ideuzza dell’occasionale maggioranza. Resteremo aggrappati ancora, finché la radio avrà voce, anche senza la voce di Massimo Bordin, non potremo dimenticare il debito che abbiamo nei confronti di Massimo e della radio, sarà un debito che potremo ripagare soltanto restando lì, ad ascoltare le voci finché ci saranno e ad ascoltare gli echi delle voci che non ci sono più. Non c’è mai un tempo buono per morire, e non è mai un tempo buono quello in cui si sopravvive. Massimo è morto, ma tanti vivi sono più esangui di lui.
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Alessandro Trocino per il Corriere della Sera
Servo non lo è stato mai, Massimo Bordin, ma sempre libero, liberale e libertario. E naturalmente radicale, senza aggettivi. Radicale fino al midollo, immerso in quest’anomalia italiana che è stato il movimento fondato da Marco Pannella, sin da quando, nel 1979, mise piede per la prima volta in radio. La sua scomparsa, a 67 anni e dopo una lunga malattia, getta nello sconforto chi ascoltava religiosamente ogni mattina la sua voce profonda, sempre più cavernosa.
Le sue analisi lucide, sarcastiche e impietose erano una sorta di seduta di analisi collettiva del Paese. Per chi lo ascoltava, nella preghiera laica che teneva da 30 anni, Bordin era un amico. Odiava la sciatteria, la superficialità, il conformismo. Si scusava se sbagliava un cognome («È sdrucciolo, certo»), ma non risparmiava sarcasmi a nessuno, neanche agli amici. I suoi commenti erano spesso acuminati, ma sempre eleganti, colti, con un retrogusto ironico.
Da giovane Bordin è trotzkista. Nel 1979 entra a Radio Radicale e non la lascia più. Diventa il titolare di «Stampa e Regime», creata da Marco Taradash, e si inventa uno stile dissacratorio, immortalato dai fan social «Melomani bordiniani», che amano la sua «sommessa ironia» e la sua «immensa cultura». In radio, ma anche sulla rubrica «Bordin Line» sul Foglio, esercita il cinismo intelligente di chi sa che non esiste la purezza e pure cerca con tenacia di capire, e distinguere. Per questo conserva sempre il rispetto di tutti, anche quando Radicali italiani e Partito Radicale litigano ferocemente.
Per anni tiene testa a Marco Pannella, nelle conversazioni domenicali. Un flusso di coscienza interrotto dall’unico in grado di districarsi nel canestro riboccante di parole e ugge pannelliane. Bordin si sottopone stoicamente a questa meravigliosa tortura, usando sempre l’ironia: «Marco, mancano 40 minuti, ce la fai a chiudere la parentesi?». Una volta si imbestialisce per l’infatuazione di Pannella per Massimo Fagioli: non tollera che quest’ultimo definisca Freud «un cretino». Poi Bordin diventa famoso e stimato. Troppo. Pannella si ingelosisce e da bravo Kronos che divora i figli spalanca le fauci, dandogli dello «stronzo dalemiano». Seguono le orgogliose dimissioni da direttore, ma non da conduttore.
Negli ultimi tempi se la prende con Vito Crimi, che non vuole rinnovare la concessione alla radio, e che chiama «il gerarca minore». E con Luigi Di Maio, definito «gesuita e stalinista». Sono i giorni del dolore, per la malattia che avanza, e della rabbia, per la fine imminente della radio.
Se Pannella fumava 60 sigari al giorno, Bordin lo emula, con tre pacchetti di Chesterfield. Gli ultimi giorni, si perde in una nuvola gutturale. Scoppi di tosse, pause. Ieri, l’annuncio commosso di Ada Pagliarulo e del direttore Alessio Falconio. E poi il requiem di Mozart, che per anni lo ha preceduto. Sui social, i ricordi commossi degli amici (molti dei quali parteciperanno ai funerali che saranno celebrati venerdì mattina a Roma nella Chiesa Valdese).
Ma anche voci meno sincere, di quella che avrebbe definito la «funerea combriccola». Perché spesso chi fa del male «non è entusiasta: si limita ad essere complice». Stamattina la sua voce non si sentirà. Resterà l’eco del suo avvertimento: «I giornali sono fatti di parole, non di altro. E il loro uso non è mai innocente».
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Mario Stanganelli per Il Messaggero
Per uno stuolo di politico-dipendenti sparsi su tutto il territorio nazionale la sua voce roca, al mattino su Radio Radicale, era più efficace del primo caffè del giorno. Preceduto dalle note del Requiem di Mozart, colonna sonora ufficiale dell’emittente pannelliana, alle 7,35 Massimo Bordin dava il via alla più seguita rassegna stampa radiofonica che passa sotto il nome antico e sempre rivendicato di Stampa e Regime. In molti avevano la radio-sveglia sintonizzata a quell’ora per cominciare la giornata con quella sorta di rito laico officiato con sapienza e ironia, supportate da una sterminata memoria politica, che era diventata nel corso di quasi trent’anni la rubrica di Bordin. Ma ieri mattina il direttore dell’emittente, Alessio Falconio, ha annunciato in diretta, con la voce rotta dall’emozione, la scomparsa «della voce più importante di Radio Radicale». Una scomparsa che – sottolineava Falconio – «arriva in un momento difficilissimo per la radio che rischia la chiusura per i tagli all’editoria decisi dal governo».
Infatti, sembra che la sorte del giornalista che per quasi vent’anni ha diretto quella radio si dovesse intrecciare fino all’ultimo con le difficoltà dell’emittente che, a meno di un ripensamento della maggioranza di governo sulla concessione e il relativo finanziamento pubblico, sospenderà le trasmissioni il mese prossimo, dopo oltre 35 anni di ininterrotta attività. Un’eventualità che tra le parole dell’unanime cordoglio di tutte le forze politiche per la scomparsa del giornalista radicale, è stata paventata come l’ultima delle cose da augurarsi per chi ha a cuore la libertà di stampa e la completezza dell’informazione.
Un amico e sodale di vecchia data di Bordin come Roberto Giachetti, ha ricordato che, «coniugando un pozzo di cultura politica a una memoria straordinaria e a un’ironia raffinata, Massimo ha speso tutte le sue energie lavorando fino all’ultimo respiro per salvare Radio Radicale».
E questo è stato certamente l’obiettivo di Bordin che, nonostante l’assalto dell’inesorabile male ai polmoni che lo ha portato alla fine, è andato avanti con la trasmissione fino al due aprile scorso. Con un impegno che ricordava quello del suo grande mentore Marco Pannella che, immerso nella politica fino all’ultimo soffio di vita, non ha voluto cambiare stile ed abitudini, compresa quella del fumo. Irresistibile pulsione condivisa da Bordin, cui dava testimonianza la sua voce arrochita intervallata dalla tosse che tanti italiani hanno imparato a riconoscere immediatamente, non solo attraverso Stampa e Regime. Ma anche nelle interminabili e contorte conversazioni con Pannella mandate in replica ancora oggi, che era facile immaginare si svolgessero in una nuvola di fumo in cui metaforicamente era solo Bordin a riuscire a districarsi anche se talvolta attraverso sonorissimi scontri. Che di solito rientravano pacificamente ma non sempre, come quello che portò Bordin alle dimissioni dopo 19 anni dalla direzione di Radio Radicale, pur continuando in seguito a collaborarvi. E rimanendone, fino alla scomparsa, l’immagine di punta, in cui si riconoscevano anche le due fazioni in cui il Partito radicale si divise dopo la morte di Pannella. Ricordandolo ieri nell’aula del Senato, Emma Bonino ha detto che «se ne va una parte di tutti noi». Cordoglio condiviso da tutti i senatori presenti, fino al presidente di turno Roberto Calderoli, unico esponente della maggioranza ad associarsi chiedendo un minuto di silenzio all’Assemblea. Ma fuori dall’Aula oltre alla presidente Maria Elisabetta Casellati, è stato Matteo Salvini a esprimere il suo «grande dispiacere» per la scomparsa di «una voce libera». Inatteso il cordoglio di un esponente grillino come il sottosegretario all’editoria Vito Crimi, definito dalla vulgata corrente come il killer di Radio Radicale. E di questo sembra averne voluto conto Vittorio Sgarbi, secondo il quale «deve esserci un limite all’indecenza, per cui i Crimi e Di Maio che voglio chiudere Radio Radicale piangono oggi Massimo Bordin».
Certamente al di sopra di queste polemiche, Massimo Bordin si e spento quietamente ieri all’Idi di Roma, assistito dall’attuale compagna Daniela Preziosi, dagli amici che più gli sono stati vicini nelle ultime settimane, Alessio Falconio e Massimo Teodori, dal figlio Pierpaolo con la madre Annamaria. Il funerale domani alle 10,30 nella Chiesa Valdese di piazza Cavour.