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 2019  aprile 18 Giovedì calendario

Dopo la morte non c’è niente. Era il pensiero pagano

Nel mondo pagano non ci si attendeva nulla dopo la morte. E questo senso della finitezza incrementava il valore dell’esistenza. È quel che si ricava da una monumentale raccolta di epitaffi greci, la Spoon River dell’antichità La morte non è uguale per tutti. C’è una morte cristiana e c’è una morte pagana. La prima è un transito dalla vita terrena alla vita eterna. La seconda è un transito nel buio, «un cammino di tenebra», per citare Catullo, «da cui non torna indietro nessuno». Secondo l’uomo che predicò in Galilea, e che le fonti chiamano Gesù, dopo la morte ci sarà un’altra vita, e non solo, ma persisterà anche il nostro io. Contrariamente alle più ardite congetture dei mistici e dei filosofi ellenici, orfici, pitagorici e platonici, l’anima né perderà memoria di sé per reincarnarsi in altro essere vivente, pianta, bestia, uomo che sia, né verrà riassorbita nel grande alveo dell’anima del mondo, secondo il processo evocato dai neoplatonici greci, la cui migliore raffigurazione è fornita dai mistici islamici nella cupola della moschea di Sheikh Lotfallah a Isfahan. Nella civiltà cristiana invece, che in parte attingeva a precedenti religioni misteriche, l’immortalità è concessa all’anima individuale, che risorgerà nel proprio corpo, secondo un mistero di cui è figura e promessa la resurrezione di Cristo: l’evento sacro che da duemila anni celebriamo nel giorno di Pasqua, in concomitanza con quella festa ancestrale di rinnovamento primaverile della natura che da sempre e in più civiltà si colloca in questo periodo dell’anno. «Con la morte hai calpestato la morte», recita l’inno pasquale bizantino che ancora si canta nel mondo ortodosso. «Morte, dov’è il tuo pungiglione?», esultava san Paolo. Ma già all’epoca qualcuno si lamentava. Il primo resuscitato, per esempio: Lazzaro. Le leggende popolari lo vogliono smarrito nella sua immortalità, senza pace. Le intercetterà un grande interprete del folklore globale, il poeta irlandese William Butler Yeats, nel poema Calvary, in cui Lazzaro rimprovera a Cristo: «Mi hai tratto alla luce come i ragazzi strappano un coniglio / fuori dalla sua tana quando l’hanno distrutta. / Pensavo che sarei morto / quando gli anni a me assegnati fossero scaduti. / Ora accecherai con la luce la solitudine / che la morte aveva creato; disturberai quell’angolo / dove avevo creduto di poter giacere al sicuro per sempre». Naturalmente il messaggio evangelico si può leggere in più modi. Il regno dei cieli può alludere a un altro regno, la resurrezione dalla morte a un altro risveglio. Ma non per quello che i primi filosofi cristiani chiamavano “il popolo” e che per duemila anni avrebbe preso alla lettera la promessa di una morte sconfitta per ciascuno di noi dalla vita eterna. Lazzaro si aspettava l’altra morte, quella pagana – così la chiamerebbero i primi cristiani – o ebraica o ellenica, che è del tutto diversa. In quel mondo, in cui la vita eterna non esisteva – se non in forma di sogno, incantesimo, fabula, leggenda scissa da ogni metafisica o filosofia della vita –, la vita terrena risultava intensificata. Lo testimonia un volume letteralmente monumentale: la raccolta degli oltre duemila epitaffi greci allestita dal grande epigrafista tedesco Walter Peek, pubblicata in italiano da un’équipe di giovani grecisti guidata da Emanuele Lelli, che ha revisionato e aggiornato il lavoro decennale di traduzione e commento di uno studioso da poco scomparso, Franco Mosino ( Epitaffi greci. La Spoon River ellenica di W. Peek, Bompiani, pagg. 1516, euro 55). La visione della morte precristiana che emerge dalla formidabile Spoon River ellenica di Peek, dalle voci di queste «migliaia di esseri umani posti di fronte alla barriera alzata dalla morte», da questo «pulviscolo di vite che si sarebbero annullate», come scrive nella sua prefazione Guido Guidorizzi, se qualcuno non avesse inciso i loro nomi e pensieri in queste pagine di pietra, ci dice molto della vita e del suo senso prima dell’avvento di un’unica e pervasiva religione di promessa e speranza. Moltitudini di umani, prima del regno dell’imperatore Tiberio, sotto cui predicò e morì Gesù Cristo, vivevano la vita senza illusioni: «Non c’è nell’Ade la barca, non c’è il traghettatore Caronte, / non c’è il guardiano Eaco né il cane Cerbero: / ci siamo invece noi, tutti noi di quaggiù, i morti, / che diventammo ossa, cenere, e non c’è un briciolo d’altro», recita l’epigramma funerario di un liberto romano. Oppure: «Ahimé, non c’è logica riguardo ai mortali, ma come animali / siamo governati da una vita meccanica, oppure dalla morte». In una tomba di Cipro, nel IV secolo a.C., Onaso dichiara: «Qui giaccio io, ma non capisco perché». Nel III a.C. un defunto di Rodi: «Vi consegno una morte da talpa». Giuliana, otto anni, presso Ravenna, fine III d.C.: «Un tempo Ermes / usò il guscio della tartaruga come strumento musicale: io nella tenebra faccio risuonare / un canto cupo, sono io la tartaruga». Quasi sempre, nei testi in definitiva più banali, l’evocazione della morte sfocia nell’esortazione a non perdere nulla del vivere, a non distrarsi, ad assaporare la vita momento per momento: «Guarda e fermati: /osserva questa immagine, vedi la tua fine / e usa la vita non come se dovessi vivere per sempre». Oppure: «Vivi per vivere, quaggiù non avrai / fuoco da accendere. /Sperimenta tutto. / Da qui nessuno, dopo morto, si sveglia». Ma in questi testi, e in generale nel mondo cosiddetto pagano, c’è di più. C’è il senso di una vita che, còlta nell’attimo, contiene più bellezza e più poesia. C’è il lamento per «la cenere caduta sui tuoi pepli non ancora profumati, / sulle corone di fiori, sui tuoi libri». C’è il pianto cadenzato come il grido dell’alcione di una madre che non riesce a risvegliare la figlia «smarrita senza meta sulle gelide sabbie / del Cocito dalla corrente rimbombante». Alla fine del suo epitaffio una baccante si definisce: «Una che sa l’importanza del bello».Il mondo contemporaneo è affetto da una scissione. Da un lato, la prevalente visione che gli antichi avevano della morte come dissoluzione nel nulla non è lontana da quella che la cosiddetta secolarizzazione, e comunque la filosofia esistenzialista che ha dominato gli ultimi due secoli di pensiero occidentale, hanno oggi diffuso nella cultura e nella psiche di molti. Ma questa visione spesso, nei singoli, convive con i residui della speranza popolare cristiana, depositati nel fondo dell’anima collettiva da secoli di tradizione educativa e retaggio familiare, troppo numerosi per dissolversi del tutto e in tutti. La duplicità produce conflitti, consci e inconsci, turbamenti, oscillazioni e in ultima analisi quello che nel lessico quotidiano si è soliti chiamare, non senza improprietà, nichilismo. Ma non era certo nichilistica la visione degli antichi – stoici, epicurei, cinici, scettici, oltreché pitagorici e platonici – né la loro regola di vita. La loro severa, coerente morale non era imposta da una promessa di remunerazione dopo la morte, ma era autonoma, fine a sé stessa, elaborata per rendere più gratificante la vita, per darle quel minimo di senso altrimenti assente. La vita senza immortalità era forse più equilibrata, più intensa, più poetica, più intrisa della necessità e capacità di «sapere l’importanza del bello» di cui parla nel suo epitaffio l’antica baccante. Mezzo secolo prima del Lazzaro di Yeats, un poeta vittoriano, Algernon Swinburne, scrisse un inno a Proserpina, la regina degli inferi, che immaginò pronunciato dall’imperatore Giuliano poco dopo la definitiva vittoria della religione cristiana: «Vicisti, Galilaee», «Hai vinto, Galileo», si leggeva in exergo. A Cristo rimproverava di avere sottratto agli umani la morte, e con la morte la vita: quel senso pagano del vivere che la promessa di resurrezione cancellava, quella sensualità della caducità, così intrinseca alla letteratura antica. «Vuoi prenderti tutto, Galileo? Ma questo non potrai prenderlo:/ il lauro, le palme e il peana, / la danza delle Ore come un’unica lira, / le corde crepitanti come scintille di fuoco. / Poco viviamo. Perché non più pienamente possibile?» Una pienezza inscindibile dalla finitezza, quasi un’invocazione di mortalità: liberaci dalla vita eterna, amen.