Agi, 17 aprile 2019
A che servono i miliardi che i sauditi hanno rastrellato sul mercato
Nei giorni scorsi Aramco, la compagnia petrolifera dell’Arabia Saudita, si è per la prima volta rivolta ai mercati finanziari internazionali allo scopo di reperire fondi tramite un’emissione obbligazionaria. La società è controllata al 100% dallo Stato, ma sarebbe meglio dire dalla famiglia reale (i Saud) che con esso si identifica e al quale, caso unico nel mondo, ha anche dato il proprio nome, giusto per sottolinearne la proprietà.
In vista del collocamento del prestito, Aramco ha dovuto per la prima volta rendere pubblico il proprio bilancio da cui è emerso un utile nel 2018 di 111 miliardi di dollari. Nessuna società al mondo, compresi i giganti tecnologici, si approssima a questa incredibile profittabilità.
Sembra lecito chiedersi allora che bisogno abbia una società che produce utili per oltre 100 miliardi l’anno di chiedere ulteriori fondi al mercato. La risposta è banale: i soldi servono a finanziare i progetti della monarchia saudita, la quale beneficia di oltre l’80% dei profitti di Aramco tramite dividendi e un’imposizione fiscale dedicata. Una parte di questi progetti è stata esplicitata e sarebbe volta a un ammodernamento del Paese, affrancandolo dalla dipendenza dal solo petrolio. In particolare, fra le iniziative rese note vi è la creazione di una immaginifica città nel mezzo del deserto, destinata a divenire un hub tecnologico di rilevanza internazionale.
Ma al di là di questo fantasioso progetto, ben più serio e costoso è il disegno geopolitico che l’Arabia Saudita sta da tempo perseguendo. Essa ha infatti delle mire egemoniche sul Medio Oriente che intende difendere sia dalle influenze sciite (leggasi Iran) sia dalle iniziative dell’altra potenza della regione, la Turchia. Si spiega così l’improvvisa nascita e sviluppo dell’Isis nel 2014, in contrapposizione alle altre milizie islamiche che, con la protezione della Turchia, combattevano in Siria il governo di Assad e che all’epoca sembravano vicine alla vittoria.
Alle medesime finalità va ricondotto l’appoggio politico e finanziario al colpo di Stato in Egitto che ha portato al potere il generale al-Sisi e rimosso il governo in carica appoggiato dalla Turchia. Un esempio più recente di questo confronto fra le due potenze sunnite medioorientali è rappresentato dalla situazione in Libia, dove si fronteggiano il generale Haftar, sostenuto dall’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto, e il Presidente al Sarraj, supportato dalle milizie di Misurata e di Zintan che a loro volta fanno riferimento alla Turchia e al suo alleato Qatar.
Ma torniamo ad Aramco. Da tempo il governo saudita cercava di utilizzare la sua “gallina dalle uova d’oro” per reperire fondi a sostegno delle sue avventure geopolitiche. Giusto per fare un esempio, l’anno scorso è stato firmato un accordo con gli Stati Uniti per l’acquisto di oltre 100 miliardi di dollari di materiale bellico, in aggiunta alle forniture già essere. Un’operazione quest’ultima che qualcuno ha equiparato a gettare un cerino in una tanica di benzina.
A fronte dell’estensione dei propri impegni finanziari, per lungo tempo è stata portata in avanti un’iniziativa volta a collocare sul mercato il 5% del capitale azionario di Aramco, con la speranza di reperire circa 200 miliardi di dollari. Il progetto sembrava in dirittura d’arrivo, con le piazze finanziarie di Londra e New York che si contendevano l’affare, quando è intervenuto il brutale assassinio nel consolato saudita di Istanbul del giornalista Khashoggi, il cui mandante è stato riconosciuto da un rapporto della CIA nel rampante principe ereditario Mohammad bin Salman, meglio noto come MBS.
Il caso vuole che solo dopo due settimane dall’omicidio di Khashoggi era in programma nella capitale Riad un convegno a lungo preparato ed enfaticamente chiamato “Davos nel deserto”, cui erano stati chiamati a partecipare i maggiori esponenti della finanza internazionale. Lo scopo era quello di finalizzare il collocamento delle azioni Aramco e, più in generale, di attirare investimenti stranieri nel Regno. L’orrore e la conseguente sovraesposizione sui media del delitto Khashoggi indussero molti degli invitati a disertare il convegno. Può darsi che qualcuno fosse in buona fede, ma è presumibile che la maggior parte di coloro che presero la decisione di non partecipare lo fece per una valutazione di “corettezza politica”, a fronte dello scandalo insorto nell’opinione pubblica.
Non si può credere infatti che essi fossero all’oscuro delle altre iniziative azzardate del principe saudita. Solo negli ultimi due anni, MBS ha infatti: effettuato una “retata” di principi e imprenditori, imprigionandoli all’interno di un hotel di lusso e rivendicando un riscatto per la loro liberazione; chiuso le relazioni diplomatiche con il Qatar imponendo allo stesso un blocco navale ed aereo ancora in essere; sequestrato il primo ministro libanese, imponendogli di dettare le sue dimissioni con un messaggio televisivo (per la sua liberazione, dovette poi intervenire il Presidente francese Macron che si recò a Riad e lo riportò materialmente in Libano dove riassunse le sue funzioni). Ma nessuna di queste iniziative ha avuto l’eco mediatica del delitto Khashoggi e quindi la finanza internazionale poteva continuare a fare affari “as usual”.
Dopo che il progetto del collocamento azionario aveva subito una battuta d’arresto, si è così ripiegato sull’emissione obbligazionaria, la quale si è rivelata un successo oltre ogni aspettativa. Sono stati raccolti infatti oltre 100 miliardi di dollari, facendone una dei maggiori collocamenti della storia. Sono bastati solo due mesi, quindi, perché la finanza internazionale rimuovesse l’orrore del delitto Khashoggi. Ma c’è di più.
Fra coloro che rinunciarono a partecipare alla “Davos nel desert”, spiccava fra gli altri Jamie Dimon, il carismatico CEO della JPMorgan. Ebbene, è stata proprio JPMorgan, assieme a Morgan Stanley, ad assumere l’incarico di coordinare le operazioni di collocamento del prestito obbligazionario di Aramco. Così va il mondo.