«Nel mio ultimo libro su New York la parte finale è fatta col cellulare, anche lì c’è un motivo. Ho iniziato a fotografare da bambino, negli anni Cinquanta, con una Kodak Brownie, poi per una sessantina d’anni ho inseguito le evoluzioni tecnologiche delle fotocamere, alla fine ho chiuso il cerchio tornando al balocco, perché questo è il fotocellulare, qualcosa con cui tutti ci divertiamo. Ho voluto diventare di nuovo bambino, fare le foto storte dei grattacieli, recuperare l’ingenuità».
Molti fotografi passati al cellulare raccontano di questo senso di liberazione…
«In fondo è così, il software del fotofonino non ti chiede di applicare ogni volta il tuo sapere, ti libera dalla paura di sbagliare, ti permette di concentrarti sull’attimo di vita».
Per molti questa è perdita di autorevolezza. La sapienza della macchina spodesta l’autore…
«Le fotocamere professionali sono già così accessoriate che sanno meglio di te come prendere la luce, la profondità di campo. Credo piuttosto che ci sia paura di come si appare agli altri, il fotocellulare non è ancora considerato uno strumento professionale, chi lo usa sente il bisogno di giustificarsi».
Ma un po’ è vero che il fotocellulare è prepotente, no? Ormai decide non solo la tecnica ma anche l’estetica della nostra foto.
«Ma anche prima ogni fotocamera faceva meglio alcune cose e peggio altre, ogni ottica aveva la sua idea dello spazio e ogni pellicola la sua idea del colore. I fotografi sceglievano attrezzature e materiali per quello che ‘ sapevano fare’. Semmai ora hai uno strumento che sa fare molte cose in una volta. Vede, non credo che l’industria abbia poi così tanta voglia di colonizzare l’immaginario della gente, casomai cerca di soddisfare tutti gli immaginari perché così vende di più».
È l’inizio della fine per le fotocamere vecchio stile?
«Ho sempre cambiato macchine secondo il progresso delle tecnologie, non capisco perché dovrei fermarmi adesso. E nulla vieta di usare tecnologie diverse in occasioni diverse. Ho progetti che non potrei fare col cellulare perché voglio avere una macchina da impugnare in un certo modo, mettere su un cavalletto, la fotografia ha anche aspetti emotivi e rituali. Non vai a fare il ritratto del presidente della Repubblica col cellulare. Viceversa, è vero che chi ti sta davanti reagisce in modo diverso se gli punti addosso una biottica 6x6 o un telefonino, quindi se vuoi passare inosservato è meglio il secondo».
Nella sua scuola si insegna a usare il fotocellulare?
«Sì, da alcuni anni facciamo corsi e workshop. Devo dire con mia sorpresa che c’è una certa resistenza fra gli studenti, anche i più giovani. Questi nativi digitali sembrano affascinati dalla camera oscura, vogliono diventare immigrati analogici».
Magari per distinguersi dalla massa dei selfisti?
«Sì, dal modo in cui loro stessi usano il cellulare ogni giorno, senza pensarci troppo, senza sentirsi coinvolti, perché a quelle foto non danno valore. In parte credo sia anche una specie di reazione a un mercato che ti costringe a cambiare apparecchio ogni anno per sentirti adeguato. C’è un po’ di nausea per questa rincorsa consumista. Molti miei studenti diventati famosi lavorano con la pellicola, quando possono. Ma se siamo in questo mondo dobbiamo imparare a gestirlo. La contemporaneità si racconta con strumenti contemporanei. Non credo che si possa più raccontare il mondo con la pellicola Tri-X».
E il fotofonino non sarà certo l’ultimo apparecchio della storia.
«Fotograferemo con gli occhiali. O con la mente. Non vedo l’ora. Bisogna accettare le sfide. Io credo nell’umano. Alla fine quello che conta è conservare il diritto di fare delle scelte. Basta che sia tu a tenere in mano la macchina a non viceversa».