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 2019  aprile 17 Mercoledì calendario

Nella war room coi generali di Sarraj

«L’ordine è chiaro, il Governo di accordo nazionale deve avere il controllo di tutta la Libia, Bengasi compresa». Il colonnello Mohammed Qannouno, lo ripete come un mantra, prima in arabo e poi in inglese. È lui la voce della «war room» delle forze armate fedeli a Fayez al Sarraj, cabina di regia dell’operazione «Vulcano di rabbia» contro le milizie di Khalifa Haftar. «Siamo l’anello di congiunzione tra il governo e il fronte, tra la politica e le forze sul campo - spiega - In base agli ordini moduliamo strategie e tattiche». Dopo i controlli di sicurezza che precedono l’ingresso della base situata a Ben Ashour, a Tripoli, entriamo nel suo ufficio, i muri sono un mosaico di mappe terrestri e satellitari sulle quali ci indica le dinamiche del nuovo risiko libico. Salta all’occhio il fregio giallo-rosso di Misurata sulla manica della divisa blu dell’aeronautica militare: è uno degli eroi di Macomades, la campagna del 2016 contro lo Stato islamico a Sirte. Quella però era tutt’altra guerra. 
«La nostra priorità è mettere in sicurezza la popolazione civile, prima che si inaspriscano i combattimenti - avverte - Per questo nella prima fase ci siamo limitati a respingere gli attacchi delle forze di Haftar». Del resto oltre ai 174 morti e 756 feriti di questa nuova guerra a bassa intensità ci sono circa 20 mila sfollati nella capitale di cui 7300 sono bambini. Ora però è iniziata la seconda fase, la controffensiva su «cinque fronti», Bab al-Aziziyya, Gasar Ben Gasher, Swani, Wadi Arrabya e Ain Zara, «gli ultimi tre particolarmente intensi», come dimostrano gli arrembaggi di ieri delle forze haftarine con boati che si udivano al centro della capitale. Anche questa è una guerra asimmetrica, a suo modo, «il generale è pronto a dare fondo agli arsenali», anche perché l’Egitto - ed è questo l’elemento di novità emerso nelle ultime ore - sarebbe irritato per le promesse disattese da parte dell’uomo forte della Cirenaica sulla riuscita della campagna in tempi utili. 
A Tripoli, intanto, cresce l’astio contro Parigi. «Francia, giù le mani dalla Libia», «siamo amici del popolo francese, Macron è un dittatore, vada via!», hanno urlato a piazza Algeria un centinaio di manifestanti, soprattutto donne, con indosso gilet gialli come nelle manifestazioni contro il titolare dell’Eliseo a Parigi. Alcuni inneggiavano ai progressi registrati negli ultimi giorni sul campo. «Abbiamo catturato miliziani di Haftar e sequestrato mezzi e armamenti e materiali e un aereo è stato abbattuto - riferisce il colonnello - Monitoriamo le vie di comunicazione grazie a satelliti e forze aeree, specialmente tutte le direttive da e per Gharyan che colpiamo con precisione ogni giorno, per tagliarne le vie di approvvigionamento e isolarla». Partendo dalla lontana Jufra, nell’entroterra, da dove il 3 aprile è iniziata la marcia su Tripoli, e a ridosso della quale oggi ci sono proprio i misuratini. 
L’obiettivo quindi è Gharyan, bastione di Haftar da lui conquistato nelle primissime battute della marcia su Tripoli. Un obiettivo ostico perché si tratta di area montuosa e impervia circondata da insidiosi spazi aperti. Sui tempi Qannouno è prudente: «Non ci diamo scadenze, quelle le fissa la politica». La guerra comunque finirà a Gharyan? «Abbiamo l’ordine di garantire il controllo di tutte le città della Libia, non solo della Tripolitania, Tarhuna, Gahryan, il Sud, tutte le città della Libia devono essere messe in sicurezza, passo dopo passo, questi sono gli ordini del comando ricevuti dalla politica». E quando il colonnello parla di Libia intende tutta la Libia, «Cirenaica compresa». Questo vuol dire che, se necessario, marcerete su Bengasi? «Glielo ripeto in inglese per essere chiaro: l’ordine dal comando centrale è di andare in ogni città della Libia che non è sotto il controllo del Governo di accordo nazionale». Perentorio Qannouno che conferma, tra le righe, la presenza di stranieri tra le fila di «Diluvio di dignità»: «Abbiamo molte informazioni al riguardo ma non possiamo renderle pubbliche sino alla fine delle operazioni». L’ultima domanda: vi sentite con Roma e con gli italiani che sono a Misurata? «Sono informazioni riservate, posso però dire che con il vostro governo e con i vostri militari siamo molto amici».