16 aprile 2019
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Biografia di Garri Kimovič Kasparov
Garri Kimovič Kasparov (nato Garri Kimovič Vajnštejn), nato a Baku (Azerbaigian, all’epoca appartenente all’Unione Sovietica, oggi indipendente) il 13 aprile 1963 (56 anni). Scacchista. Grande maestro. Già campione del mondo di scacchi (1985-2000). Attivista. «Il gioco degli scacchi è lo sport più violento che esista» • Figlio di due ingegneri, l’ebreo russo Kim Moiseevič Vajnštejn e l’armena Klara Kasparjan, della quale a dodici anni, dopo la prematura morte del padre (che aveva però fatto in tempo a trasmettergli la passione per gli scacchi), assunse il cognome, russificandolo. «A 4 anni già legge, conosce l’aritmetica elementare e mostra una memoria degna di un calcolatore elettronico. Qualche anno dopo la leggenda racconta che passeggiando per strada abbia “immagazzinato” 100 targhe di automobili e una volta arrivato a casa le abbia elencate tutte. Un giorno, ancora piccolo, risolve un problema scacchistico che nessuno dei genitori era riuscito a sbrogliare. Il destino è segnato: abbandona definitivamente gli studi di violino (aveva un nonno e uno zio musicisti) e si dà alla scacchiera» (Gian Luca Pasini). «Passerà per il mitico e inevitabile Palazzo dei pionieri di Baku, fucina scacchistica in cui incontra Mikhail Botvinnik, campione del mondo negli anni ’50, vero e proprio monumento degli scacchi sovietici anche se ormai confinato ai margini del potere. Botvinnik riconosce subito la genialità di quel piccolo azero e lo mette sotto la sua ala protettiva, in quello che è stato l’unico sostegno “istituzionale” ricevuto dal giovane Kasparov: “L’avvenire del nostro gioco è nelle mani di questo piccolo”» (Daniele Zaccaria). «“Le scuole per i giovani talenti delle nuove generazioni facevano parte della tradizione sovietica, e quella di Botvinnik fu una delle prime e delle migliori: negli anni ’60 ci studiò Karpov, negli anni ’70 io, e negli anni ’80 Kramnik. Io fui scelto per andarci nel 1973, a dieci anni”. È vero che poco dopo lei stupí Botvinnik, facendo una nuova analisi di una sua partita con Fischer? “Sì, a dodici o tredici anni. Si trattava di una famosa partita del 1962, che era stata analizzata estesamente. Fischer si era illuso di avere la vittoria in tasca, ma durante la sospensione Botvinnik aveva trovato un modo ingegnoso per pattare. In seguito Fischer cercò di dimostrare che aveva avuto una strategia vincente, e Botvinnik che c’era invece una strategia per pattare, ma entrambi si erano concentrati sul finale di partita. Io scoprii sorprendentemente che una strategia per pattare c’era già fin dagli inizi della partita, anche se per gli standard moderni si tratta di una cosa elementare”» (Piergiorgio Odifreddi). «A 12 anni è campione di Russia junior (competizione cui partecipano giocatori fino a 19 anni), a 14 è il più giovane maestro di sempre, a 16 vince il suo primo grande torneo internazionale, a 19 è candidato al titolo mondiale in un ciclo in cui ha strapazzato ex campioni del mondo come Tigran Petrosjan e Vassilj Smyslov o giocatori del calibro di Viktor Korčnoj. Ormai manca solo l’ultimo tassello, il più difficile» (Zaccaria). La grande occasione si presentò nel 1984. «Il presidente del Soviet supremo era Konstantin Černenko e il campione del mondo di scacchi Anatolij Karpov. Nato il 23 maggio 1951 a Zlatoust, città mineraria degli Urali, aveva iniziato a giocare nel dopolavoro del padre. Era stato preparato per “vendicare” la vittoria americana di Fischer, contro Spasskij, nel 1972. Ma lo scacchista Usa non si era mai presentato a quella sfida, e Karpov si era conquistato la scena per altre strade. È un campione consolidato quando si trova davanti Garri Kasparov, 21 anni. […] Diversi in età, vivono gli scacchi agli antipodi: metodico, dotato di una memoria eccezionale il campione; istintivo, rapidissimo nel ragionamento, tanto da risultare irruento, lo sfidante. Anche dal punto di vista politico sono differenti: fedele al Pcus il primo, iscritto solo l’anno prima al partito Kasparov, che strizza l’occhio all’Occidente. Quell’irruenza è fatale al “giovane di Baku” (lo chiamava così Karpov) nel settembre ’84» (Pasini). «Karpov […] dopo nove partite era già avanti 4 a 0. Gli bastavano ancora due vittorie per "matare" l’irruente Kasparov. Gerry, disperato, trovò in Botvinnik, campione leggendario, il suo mentore: “Non dare ascolto a tua madre Klara”. Già, perché l’ingegnere Klara Kasparova era l’ombra del figlio. […] “Tu devi smettere di avere idee. Preoccupati solo di non perdere. Gioca molle, passivo”. Gerry infilò una serie di 17 pareggi, perse la 27esima partita, dopodiché inchiodò Karpov. Prima con qualche patta, poi una timida vittoria seguita da altri nulli e infine due secchi successi. Allora, dal Cremlino arrivò l’ordine di chiuderla lì. Ci pensò il buon Florencio Campomanes, presidente della Fide, la federazione internazionale, che i sovietici manovravano spudoratamente. E così fu. Senza né vincitori né vinti, dopo 5 mesi e 48 partite, di cui 40 nulle. Mandando a casa i due il 25 febbraio 1985, Campomanes sentenziò che il titolo restava a Karpov. Tutti capirono che la ragione era un’altra: Karpov era il campione del regime sovietico, Kasparov il giovane ribelle che non accettava la ferrea disciplina del partito. La grande sfida incompiuta divise il mondo degli scacchi. Chi era il più forte? Il giovane Kasparov, azero di talento infinito, col suo gioco scintillante fatto di sacrifici e di varianti estreme? O il metodico e razionale Karpov, l’idolo del Politburo, il "freddo assassino" come lo chiamava il suo maestro Nikitin?» (Leonardo Coen). «Karpov e Kasparov fino a quel momento erano rimasti seduti davanti ai loro pezzi per oltre 200 ore, avevano mosso 1.652 volte, e avevano perso cinque chili di peso uno, sette chili l’altro. Quando non giocavano, studiavano. E quando non studiavano, giocavano. Le ore di sonno erano ridotte al minimo. La tensione psico-fisica era al punto di rottura. Ma, se non li avessero interrotti, entrambi avrebbero continuato a giocare, sarebbero andati avanti all’infinito, come in quelle stampe antiche in cui si vedono due giocatori che cominciano la partita ragazzi e la finiscono vecchi» (Luigi Mascheroni). «Il campione resta Karpov. Ma una grande pagina è stata scritta. Vengono riformulate le regole, e pochi mesi dopo i due si trovano ancora di fronte per un altro Mondiale. Solo 24 partite, ancora a Mosca: alla vigilia dell’ultima partita Kasparov è in vantaggio (12 a 11). Karpov, che gioca con i bianchi, è costretto a vincere per pareggiare e mantenere il titolo, ma alla 43ª mossa si arrende, proclamando Kasparov campione» (Pasini). «Per 15 anni Kasparov restò re del mondo, "il mostro dai cento occhi" lo chiamavano, per via della sua abilità nel non perdere di vista nemmeno un millimetro della scacchiera per ore e ore. La sua voglia di vincere, di battersi su ogni mossa contro l’avversario, si mescolava con il carattere teatrale, animato, viscerale, capace di incutere un timore reverenziale negli avversari (da qui il soprannome di ’’orco di Baku"). Fu il primo ad attirare sponsor importanti, a rendere celebre lo sport degli scacchi, a costringere tutti a schierarsi con lui o contro. Fu anche il primo ad allenarsi con l’aiuto della tecnologia. E poi a sfidare una macchina» (Luca Gambardella). «L’11 maggio 1997 un computer chiamato Deep Blue per la prima volta si rivelò più bravo di un essere umano, il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov. […] Deep Blue era nato nel 1989 alla Ibm, progettato da un informatico cinese, Feng-hsiung Hsu, e dal canadese Murray Campbell. […] Deep Blue non era un normale calcolatore elettronico, ma un super-computer di quelli che gli esperti definiscono ad altissimo parallelismo: era in grado di elaborare 200 milioni di mosse al secondo e di memorizzare migliaia di partite giocate e di aperture e chiusure diverse. Aveva già sfidato Kasparov un anno prima, riuscendo a vincere la prima partita a Filadelfia, ma perdendo poi il confronto, che si gioca su sei incontri, per 4-2. Hsu e Murray non si erano persi d’animo. Avevano convocato campioni di scacchi che potessero insegnare nuove tattiche a Deep Blue e immesso nella sua memoria altre librerie di aperture e chiusure, ricorrendo anche all’analisi retrograda: si parte dalla conclusione di una partita e si ricostruiscono all’inverso tutte le mosse che l’hanno determinata. […] Deep Blue sfidò nuovamente a New York, dal 3 all’11 maggio 1997, un Kasparov più concentrato che mai: “Difenderò la razza umana”, disse pomposamente prima di sedersi alla scacchiera. Nell’incontro di un anno prima aveva capito che c’è un solo modo di averla vinta con i computer: bisogna sconcertarli, fare cose che non si aspettano. Kasparov cominciò dunque la prima partita con lo stravagante Sistema Barcza, un’apertura che non ha una sequenza precisa, ma lascia aperte diverse possibilità. Deep Blue cercò a lungo nella sua memoria qualcosa che potesse rispondere a questo attacco, ma non lo trovò, perdendo in 45 mosse. Nella seconda partita Kasparov commise un errore senza il quale avrebbe potuto pareggiare e non approfittò del fatto che Deep Blue aveva lasciato il suo re un po’ scoperto nel finale. La terza, quarta e quinta partita si conclusero in parità e l’11 maggio, con il punteggio di 2 ½ a 2 ½, iniziò il confronto decisivo, seguìto da centinaia di giornalisti. […] Kasparov partì ancora per sconcertare Deep Blue con la Difesa Caro-Kann, ma permise poi al computer di sacrificare un cavallo, mossa che scardinò la sua strategia al punto da costringerlo ad arrendersi in sole 19 mosse. Kasparov non la prese bene: accusò Ibm di avere affiancato a Deep Blue, che non era davanti alla scacchiera ma si trovava in un’altra località, alcuni campioni umani. Solo così poteva spiegarsi la sua sconfitta, perché lui aveva giocato pensando alla reazione di un computer, non a quella di un uomo: “Mi sembrava – disse – di stare giocando una partita con un essere alieno”. Ibm non fece nulla per smentirlo, né gli consegnò i tabulati che lui chiedeva, felice di avere speso bene i 4 milioni di dollari che Deep Blue era costato, tutti rientrati in pubblicità e rialzo delle azioni a Wall Street» (Vittorio Sabadin). «La sconfitta contro la macchina, seguita da quella nel 2000 contro Vladimir Kramnik, era il preludio del suo ritiro» (Gambardella). «Nel 2005 ha annunciato il ritiro per passare al “gioco” della politica: voleva contrastare l’ascesa folgorante di Vladimir Putin. Un gioco ad armi impari. Nel 2008 si è candidato senza successo alla presidenza a capo della coalizione d’opposizione Altra Russia. Nel 2011 e 2012 ha partecipato alla cosiddetta “Rivoluzione bianca”, finita nella repressione. Dopo essere stato arrestato mentre sfilava a sostegno delle Pussy Riot, nel 2013 ha lasciato la Russia, promettendo che non sarebbe più tornato» (Rosalba Castelletti). «Fuggì negli Stati Uniti per paura della sua incolumità. Ciò nonostante, restò un attivista che, dice lui, si ispira a Ronald Reagan, mentre definisce Donald Trump "la peggiore scelta che gli americani potessero fare". Anche perché – aggiunge – è sponsorizzato da Putin. Il suo carattere controverso, diretto e poco incline ai compromessi ne ha penalizzato la carriera politica. Kasparov non è nemmeno riuscito a diventare presidente della Federazione internazionale degli scacchi: gli viene preferito uno come Kirsan Iljumžinov, che, più che per le sue capacità da scacchista, è celebre per avere detto di essere stato rapito dagli extraterrestri» (Gambardella). «Oggi Kasparov è impegnato sul fronte della cybersecurity con l’azienda ceca Avast e parla di uno stato di "guerra" sul digitale che nessuno sta cercando di contrastare come invece andrebbe fatto. […] "La maggior parte delle persone in Occidente non vuol sentire parlare di guerra. Eppure sul web è in corso una guerra. La tecnologia amplifica, nel bene come nel male, e adesso amplifica i messaggi radicali: poco importa che siano quelli del Movimento 5 Stelle, di Donald Trump o di chi ha spinto per la Brexit. Trump si può permettere di mentire cinque volte al giorno su Twitter, senza alcun contraddittorio. Eppure il problema è politico, non tecnologico: sono i messaggi alternativi a latitare, manca una visione, mentre quelli di coloro che hanno costruito il benessere dell’Occidente negli ultimi decenni si son fatti deboli". […] "Sa quale sarebbe l’unica mossa possibile? Far rispettare le regole a tutti ovunque. Il problema non è tanto mettere al bando le armi chimiche, quanto fare in modo che nessuno le usi. America ed Europa hanno la forza di imporre standard elevati e di obbligare al rispetto su scala planetaria. La Russia o la Cina non lo accettano? E allora resteranno fuori finché non cambieranno posizione. Bisogna avere la forza di rinunciare a una parte del tornaconto immediato per un principio, se si pensa che [internet] debba essere universale come voleva essere il Web di Berners-Lee"» (Jaime D’Alessandro) • Sporadiche le partecipazioni a competizioni scacchistiche successive al ritiro. Tra le più suggestive, la partita disputata con Karpov a Valenza nel settembre 2009, venticinque anni dopo la loro prima storica sfida per il titolo mondiale. «Ha vinto Kasparov, ancora. L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche non esisteva più, la guerra fredda era finita, l’Armata Rossa che strategicamente veniva spostata dal Politburo sulla grande scacchiera del pianeta si era dissolta, era cambiato il modo stesso di combattere le guerre, era mutata l’economia, la società, la politica, da una parte e dall’altra del Muro, che pure era caduto. Ma i duellanti erano ancora lì, immobili e immutati, impietriti, in bianco e nero, come il Cavaliere e la Morte del meraviglioso Il settimo sigillo – film allegorico pluripremiato – di Bergman. La partita continuava, e si protrae ancora oggi, con la filiazione delle scuole scacchistiche di entrambi. La Sfida, per essere tale, è eterna. Kasparov e Karpov si sono incontrati 161 volte, di cui 144 per il titolo mondiale, per un numero infinito di ore di gioco. Kasparov ha vinto 24 partite, Karpov 20. Tutte le altre sono finite in parità» (Guido Scaravilli). «“Vi sono più avventure su una scacchiera di quante ne accadono su tutti i mari del mondo”, ha detto una volta il poeta francese Blaise Cendrars. Kasparov il genio e Karpov il logico hanno scritto le più belle di quelle avventure» (Mascheroni). «Gli scacchi moderni sono stati forgiati dalla nostra battaglia, combattuta coi nostri diversi e opposti stili. I nostri match hanno creato una nuova sinergia, e accelerato lo sviluppo del gioco» • Tra gli allievi di Kasparov, l’attuale campione del mondo, il norvegese Magnus Carlsen (classe 1990) – «un talento naturale incredibile: per me, sotto un certo punto di vista, assomiglia al giovane Anatolij Karpov» –, che nel maggio 2014, ottenendo una quotazione di 2882 punti (secondo il sistema Elo), ha superato il maestro, dal luglio 1999 in vetta alla classifica con 2851 punti • Tre matrimoni, quattro figli: una femmina dalla prima moglie, un maschio dalla seconda e una femmina e un maschio dalla terza e attuale consorte, che gestisce le sue attività, e insieme alla quale vive attualmente a New York • «Non sono stato educato religiosamente, ma direi di essere autonomamente diventato cristiano, in qualche senso. Naturalmente sono sempre stato molto a disagio con le strutture confessionali, che si inseriscono fra un individuo e il potere supremo: in particolare con la Chiesa ortodossa, che in Russia è la più rigida di queste strutture. Non mi piacciono le regole stabilite dagli uomini» • «Kasparov aveva un modo politico di giocare. Uno scacchista aggressivo e d’attacco. Ha sempre giocato prendendo l’iniziativa, e non può giocare senza farlo» (Boris Spasskij) • «“Gli scacchi sono sempre stati un riflesso della cultura e della scienza dominanti nella loro epoca. Prendiamo Steinitz, ad esempio, che fu il fondatore della scuola posizionale: la sua idea che tutto potesse essere ordinato strutturalmente in maniera oggettiva era semplicemente il pensiero della fisica di fine Ottocento, che credeva ancora che tutto fosse controllabile e decidibile. Poi venne Lasker, che al contrario di Steiniz credeva che gli scacchi fossero una lotta soggettiva, nella quale bisognava solo fare la miglior mossa possibile contro l’avversario: lui era il riflesso di Einstein e Freud, di un pensiero in cui tutto è relativo e psicologico. E, se si guardano gli altri campioni, si vede sempre una chiara correlazione tra i loro stili di gioco e il pensiero dominante della loro epoca”. Anche in Karpov e lei? “Certo. Karpov, che è un tipico conformista, visse in un periodo in cui l’Occidente era in ritirata, e divenne il simbolo della cinica accettazione dell’avanzamento comunista. Io invece, che sono un ribelle e un rivoluzionario, ho vinto il titolo in tempi di grandi cambiamenti”» (Odifreddi) • «“Negli scacchi l’unica qualità che conta è il divario tra un giocatore e gli altri. Quello tra Fischer e il resto del mondo è stato probabilmente il più grande della storia, ma è durato solo un paio d’anni, mentre io ne avuto uno magari un po’ minore, ma molto più lungo: il mio dominio è durato quindici anni, e sono riuscito a mantenerlo anche sulla generazione successiva alla mia”. Questa lunghezza del suo dominio è stato uno dei motivi per cui, a un certo punto, ha iniziato a giocare coi computer? “L’ho fatto perché credevo che fosse importante per il progresso del gioco. Per me è stato un grande esperimento sociale, culturale e scientifico del ventesimo secolo, un tentativo di vedere come si paragonano la forza bruta del calcolo e l’intuizione umana”» (Odifreddi) • «“La perfezione non esiste. Aver avuto successo non significa che siamo riusciti a fare tutto perfettamente, ma solo che è stato il nostro avversario a fare l’ultimo errore. Per questo bisogna sempre tornare indietro, per scoprire i probabili errori che abbiamo fatto ed evitare di ripeterli. E per scoprirli prima dell’avversario, che sicuramente li sta cercando anche lui, per cercare di sfruttarli a proprio vantaggio”. Non si può semplicemente evitare di fare errori? “No: di errori, se ne fanno di continuo. Uno dei segreti del mio successo, quello che mi ha permesso di rimanere al top degli scacchi per vent’anni, è stato proprio il non aver mai sottovalutato niente: anche dopo una vittoria sono sempre andato a ricercare i miei errori, per poter continuare a sorprendere gli avversari. Chi vuol stare al vertice non può riposare sugli allori: deve sfidarsi al punto da arrivare a essere crudele con se stesso”. Ma lei, dunque, non ha mai giocato una partita perfetta? “No, se non altro perché negli scacchi si gioca in due: in una partita perfetta, anche l’avversario dovrebbe essere all’altezza della situazione! Alla perfezione si può tendere, però, e lottare per avvicinarvisi è il compito di ogni giocatore, per non dire di ogni uomo”. E lei quando vi si è avvicinato maggiormente? “In una partita del 1999, contro Veselin Topalov. A un certo punto riuscii a vedere una splendida posizione finale, con un anticipo di ben quindici mosse! Avrei potuto vincere prima, volendo, ma ho preferito continuare la partita fino a realizzare quella posizione: per una volta, l’ideale della bellezza ha avuto la meglio sulla pratica dell’efficienza”» (Odifreddi).