16 aprile 2019
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Biografia di Scott Turow
Scott Turow (Scott Frederick T.), nato a Chicago il 12 aprile 1949 (70 anni). Scrittore. Avvocato. Già assistente procuratore del distretto settentrionale dell’Illinois (1978-1986). «Vive due vite, tutte e due di successo. Come avvocato, è uno dei penalisti più importanti di Chicago. Come scrittore, […] ha venduto trenta milioni di copie. Scott Turow […] ha saputo mescolare con maestria le due vocazioni: i suoi libri sono gialli che si sviluppano nelle aule di giustizia. Li chiamano “legal thriller”» (Michele Brambilla). «In tutti i miei romanzi ho parlato dei limiti del sistema giudiziario, e del fatto che la condotta umana è molto più variata di quanto il sistema legale sia capace anche solo di immaginare. Come sanno benissimo gli avvocati, ci sono molte più cose nella realtà di quelle che possono essere dette e provate in un’aula di giustizia» • Famiglia ebraica di ascendenze russe • «A dieci anni fingevo spesso di non star bene. La scuola era una tortura per un bambino che amava sognare a occhi aperti, e così spesso sostenevo di essere ammalato. Mia madre era scettica, ma io soffrivo anche di tonsillite cronica, e, se un’occhiata alla gola non la convinceva, non esitavo a ricorrere alle lacrime. Il giorno in cui non andavo a scuola, di solito lo passavo davanti alla televisione. Ma, da quel che ricordo, ero veramente ammalato quando lessi per la prima volta Il conte di Montecristo. […] Erano anni che vedevo quel titolo e l’avevo giudicato assai poco promettente. Supponevo che parlasse dell’Europa e di nobili e che fosse ambientato nel passato, tutte cose che a un ragazzo americano apparivano poco interessanti. Ma lessi. Ricordo che mi sentivo debole per la febbre e che le pagine mi sembravano quasi acquose davanti agli occhi. Ma presto i personaggi, il periodo – il libro era ambientato durante l’esilio di Napoleone –, i comportamenti formali di quel tempo (anche se a volte sfociavano in duelli), la passione e lo splendore di quel mondo immaginato mi gettarono in una sorta di delirio febbrile. Leggevo giorno e notte. La spietatezza del tradimento che portò in prigione Edmond Dantès, l’allettamento del tesoro irraggiungibile la cui esistenza gli fu svelata da un compagno di prigione, l’audacia della sua straordinaria fuga e poi, grande delizia, la comparsa del misterioso e ricco Conte di Montecristo, che io, per alcune pagine, non capii chi fosse realmente, mi catturarono. Mi ricordo l’entusiasmo che provavo a ogni sviluppo del racconto e l’enorme sete di vedere alla fine che fosse fatta giustizia. Ma ero anche affascinato dall’epoca lontana e dalla vita di altre persone. Il potere elementare della letteratura e del raccontare storie – quello di permetterci di entrare nella pelle altrui – mi investì come una rivelazione. Durante quei giorni di lettura mi ricordo di aver pensato a quanto sarebbe stato meraviglioso possedere un tale potere e catturare in quel modo i lettori. Di tutti i privilegi goduti dagli adulti, mi sembrò il più desiderabile da esercitare. In quell’aspirazione c’era un’intuizione che potrebbe essere giusta: per quanto grande fosse il piacere del lettore, l’esperienza dell’autore nel creare una storia sarebbe stata ancora più intensa. A ripensarci, sento ovviamente un collegamento tra quei giorni e il seguito della mia vita. La storia di Alexandre Dumas su un caso di ingiustizia che si risolve solo dopo molte sofferenze e molto tempo è sostanzialmente il tipo di storia sugli usi e gli abusi del potere che ho finito per scrivere anch’io. Il libro di Dumas ha toccato in me una corda così essenziale del mio carattere che senza dubbio esisteva e vibrava anche prima dell’inizio dell’adolescenza». «Alla fine del liceo ho letto Ritratto dell’artista da giovane di Joyce, e ho precisato il mio sogno: non più, o meglio non solo, “voglio fare lo scrittore”; ma “voglio essere il nuovo Joyce”». «Sognavo di essere un romanziere celebre. Divoravo letteralmente Hemingway, Faulkner e Fitzgerald. Mio padre, un pediatra, e mia madre, un’autrice di libri di favole, volevano che io facessi il medico: scrivere potrà essere la tua seconda attività, dicevano, come per Cechov o Cronin o Carlos Williams, tutti medici. Temevano che morissi di fame per divenire romanziere. Naturalmente non gli diedi retta: m’iscrissi a Lettere all’Università di Amherst nel Massachusetts. Ma non pensavo ancora ai gialli». «La sua carriera letteraria […] è cominciata quando faceva il postino. “L’ho fatto per una breve estate calda. Era un lavoretto da studente. E siccome, appunto, era caldo, dopo aver consegnato la posta – scoprendo con ciò che nel pubblico impiego ti pagano per otto ore un lavoro che si può fare in cinque – passavo le tre ore rimanenti nella biblioteca di Glencoe, il mio sobborgo di Chicago. Non perché fossi particolarmente virtuoso, ma perché c’era l’aria condizionata. E mi sono messo a leggere Joyce. Ho letto l’Ulisse in sei settimane. L’ho trovato bellissimo, ma molto difficile. E questo mi ha portato a pensare. Avevo appena finito il primo anno di college, volevo diventare uno scrittore. Pensavo che qualcuno che fosse stato meno intellettualmente motivato di me non avrebbe mai finito l’Ulisse – sarà stato per questo che lo trovavo sempre, in biblioteca, perché nessun altro lo chiedeva in prestito? Mi dicevo: questo è il più grande libro che sia mai stato scritto, perché sono l’unico in città che vuole leggerlo? È questo il ruolo giusto della letteratura? Adesso so che è una domanda a cui non si può rispondere. Ogni scrittore deve decidere per sé. Se scrivere per il pubblico o scrivere un capolavoro letterario. Ma io stavo cercando la mia voce. E ho cominciato a pensare che era una violenza al rapporto tra un autore e il lettore scrivere in un modo che passa completamente sopra la testa del 95 per cento del pubblico di chi legge libri, di chi ama leggere, di chi prende ogni mattino il treno con un libro sottobraccio”» (Irene Bignardi). «“All’università rimasi affascinato da Saul Bellow. Solo molti anni dopo ne compresi il motivo: Bellow aveva fatto il liceo insieme a mio padre. La verità è che, attraverso i suoi libri, cercavo di capire mio padre, che era una persona molto enigmatica. Di Bellow sento ancora un po’ di riverbero nella mia scrittura. Un altro libro importante è stato Corri, Coniglio di John Updike: l’ho riletto cinque volte. Però, veda, tutti questi libri in fondo mi preoccupavano un po’. Più li leggevo, più capivo che non avevano avuto su di me lo stesso impatto del Conte di Montecristo”. Quando ha trovato la chiave per scrivere dei thriller? “Solo quando sono entrato a Stanford per il corso di scrittura creativa. Lì ho trovato, in Graham Greene e in John le Carré, la perfetta fusione tra la qualità letteraria e quel realismo psicologico che dà il senso di suspense. Io trovo che quella fusione raggiunga la perfezione ne Il potere e la gloria di Greene. L’altro scrittore sempre presente nella mia vita, fin da bambino, è stato Charles Dickens. Per anni ho cercato di scacciarlo dalla mia mente, pensando che i suoi racconti fossero troppo – come dire – familiari. Solo dopo tanto tempo ho capito che il suo stile è veramente superlativo. Anzi, se mi devo paragonare a uno di questi scrittori che le ho citato, dico senz’altro Dickens. È quello che mi ha influenzato più di tutti. Più passano gli anni, più lo apprezzo”» (Brambilla). «Perché fece il procuratore? "È una storia lunga. Erano gli anni Sessanta, e mi buttai nella contestazione studentesca. Ero pacifista, e scrivevo racconti impegnati; me ne pubblicarono due sulla Transatlantic Review. Ottenni una borsa di studio per […] Stanford in California. E misi mano a quello che speravo sarebbe stato il mio grande romanzo: Così come siamo. Ma dovetti rendermi conto che non ero James Joyce. Contemporaneamente, forse anche perché mi ero sposato con Annette, mia compagna di studi, mi stancai della protesta, del disordine, dei drammi, di tirare la cinghia. Avevamo molti amici giovani avvocati che mi sfidavano a seguire la loro strada. E io lo feci". Una scelta dovuta a una delusione, o una bravata? "In realtà lo feci per scherzo. Ma con mio enorme stupore passai gli esami con lode, fui accettato nei templi della giurisprudenza americana, Yale e Harvard. Optai per Harvard. Mi venne in mente che avrei potuto scrivere un libro sugli studenti di legge. Il mio agente letterario, che non era mai riuscito a piazzare Così come siamo, lo piazzò subito, con un anticipo di 4.000 dollari, una discreta sommetta per allora. Ci lavorai un anno come un matto, dal ’76 al ’77. Lo intitolai One L, ne vendetti 300 mila copie in America e 25 mila in Giappone. Toccai il cielo con un dito: avevo raggiunto l’obbiettivo: buoni studi, amici nuovi e una certa fama letteraria. […] Harvard mi cambiò. Mi fece capire che in sostanza ero il tipico ragazzo ebreo di Chicago, inquisitore e competitivo, attento ai problemi sociali. Quando mi offrirono un posto alla procura, me ne tornai nella mia città, come il figliol prodigo. Pensai che ogni scrittore ha le sue radici, e le mie erano nella borghesia di Chicago – sì, la borghesia, non me ne vergogno – da cui venivo. Intendevo mettere su famiglia e combattere per il bene della società. Sono riuscito nel primo intento: ho tre figli, Rachel, Gabriel ed Eva. […] Se sia riuscito nel secondo, non lo so. […] Negli otto anni che trascorsi alla procura, partecipai anche a Operation Greylord, un’inchiesta sui giudici e gli avvocati corrotti di Chicago. Non fu facile: c’era tra di loro gente che conoscevo molto bene. Ma portammo il nostro compito a termine. Sarei rimasto al mio posto, se nel frattempo non mi si fosse riaccesa la passione letteraria. In treno, buttavo giù appunti su appunti per un giallo, Presunto innocente. Ma il tempo passava. Annette, che prima mi aveva incitato, mi ammonì poi che dovevo procurarmi un lavoro meno impegnativo: prenditi tre mesi per finire il libro, mi disse, e trovati un posto di avvocato. […] Passavo dieci ore al giorno in ufficio e in tribunale, mi alzavo presto al mattino e andavo a letto tardi alla sera per scrivere. Non ce l’avrei fatta se mia moglie Annette non mi avesse convinto a cambiare professione"» (Ennio Caretto). «Presunto innocente […] ha visto la luce nelle ore trascorse sul treno che da Wilmette lo portava a Chicago. “Sì, l’ho iniziato a scrivere nel 1979 e sinceramente non sapevo bene dove mi avrebbe portato. Avevo voglia di scrivere qualcosa che fosse nelle mie corde, che non fosse troppo autobiografico ma che allo stesso tempo parlasse del sistema di ‘giustizia criminale’, un argomento che mi ha sempre appassionato. In quell’anno ho iniziato a buttare giù appunti su una possibile storia, sui protagonisti. Una delle prime idee che mi venne era quella di questa donna morta e di Rusty, e capii che era importante che lui diventasse l’io narrante”. Rusty è Rusty Sabich, un vice procuratore della "Kindle County" (contea immaginaria dove sono ambientati i romanzi di Turow e che ricorda fin troppo da vicino quella di Chicago). […] All’inizio del libro Carolyn Polhemus – una collega di Sabich – viene trovata morta, uccisa e violentata a casa sua senza un apparente perché. Sabich viene incaricato di occuparsi del delitto, un po’ turbato per quello che dentro di sé sente essere una sorta di conflitto di interessi; fino a pochi mesi addietro infatti aveva avuto un flirt, una storia d’amore con Carolyn, prima che la bella procuratrice lo lasciasse senza tanti complimenti. Sabich vince i suoi dubbi. In fondo solo lui era (oltre alla morta) a conoscenza di quella storia, e solo lui avrebbe potuto rivelarla. Accetta il compito affidatogli dal capo e inizia a condurre le indagini. Le cose non vanno però troppo bene, tanto che a un certo punto il povero Sabich viene accusato di essere lui l’omicida della sua ex amante. La trama più appassionante del libro inizia a questo punto, raccontando l’autodifesa del vice procuratore e la finale scoperta del vero assassino» (Alberto Flores d’Arcais). «L’esordio di Turow fu trasposto cinematograficamente nell’omonimo film di Alan J. Pakula, con la superba interpretazione di Harrison Ford. In questi trent’anni Scott Turow ha scritto undici libri, diventati tutti best-seller. Falsa accusa e L’onere della prova hanno ispirato altri due lungometraggi, entrambi diretti da Mike Robe» (Gianluigi Medori). Nel 2010 Turow ha pubblicato Innocente, seguito di Presunto innocente, in cui Sabich «ha ormai 60 anni, è diventato presidente della Corte d’appello della Contea di Kindle ed è in corsa per una poltrona alla Corte suprema. Sua moglie Barbara, con la quale è tornato a vivere, continua a soffrire di crisi depressive. Il piccolo Nat, il figlio, ha intrapreso, anche lui, la carriera forense. E Tommy Molto è ancora l’avversario di un tempo. In più, una nuova, inquietante figura femminile: Anna, assistente nell’ufficio di Rusty, troppo giovane e troppo bella per non creare problemi… Il destino, a volte, ama ripetersi. […] “Sono stato felice di questa riunione con i miei personaggi. Sono cambiati, certo, a partire da Rusty: il suo processo è stato una catastrofe per lui, ma un trionfo per me. Adesso era venuto il momento di capire come Rusty fosse riuscito a rimettere insieme i pezzi di un’esistenza e di una professione che gli si erano ritorte contro, dopo essere stato accusato erroneamente. È stato bello vedere, e raccontare, quanto sono cambiati tutti”» (Luigi Mascheroni). «Mi sono divertito a far dialogare i due romanzi. Per esempio: se Rusty Sabich di Presunto innocente fosse stato giudicato qualche anno più tardi, pur incolpevole, non se la sarebbe cavata, perché il Dna avrebbe testimoniato contro di lui. Ora, in Innocente il ruolo delle prove scientifiche è diventato fondamentale, tanto che spesso gli avvocati ci fanno fin troppo affidamento. […] Ma alla fine il romanzo è su cosa la gente sa, sui modi di saperlo, su cosa i personaggi sanno su se stessi e sugli altri, su quello che non vogliono sapere su se stessi e sugli altri. E sulla fragilità della giustizia e degli uomini che amministrano la giustizia, sulle cose che non ci vogliamo dire, sulle verità che non vogliamo scoprire anche se sono sotto il nostro naso. Questo è un tema eterno in letteratura, che non ha nulla a che fare col progresso scientifico». Da ultimo, nel 2017, Turow ha dato alle stampe La testimonianza, il suo primo romanzo ambientato in Europa. «La testimonianza è una ricostruzione del conflitto in Bosnia, ma anche una solida storia di guerra che ha il gusto dell’avventura. Protagonista è Bill ten Boom, ex magistrato americano, con un matrimonio in frantumi alle spalle e che ha deciso di abbandonare il suo Paese e il suo lavoro. Ma, quando la Corte dell’Aia invita Boom a partecipare a un processo per un atroce crimine di guerra compiuto nel 2004 nella ex Jugoslavia, l’uomo riprende con consapevolezza il proprio ruolo di maestro degli interrogatori. Sarà lui a dover scoprire se Ferko Rinci sta raccontando la verità sul massacro di centinaia di rom avvenuto in un campo di rifugiati in Bosnia. Sarà lui a dover indagare su cosa è realmente accaduto. L’importanza delle testimonianze sugli eventi accaduti in tempo di guerra è un punto fermo di questo thriller, dove la suspense e l’impegno civile vanno a braccetto» (Luca Crovi). «Il protagonista del romanzo viene coinvolto direttamente in questioni che hanno a che fare con i diritti umani e i crimini di guerra. I suoi genitori erano rifugiati di guerra olandesi, il suo passato lo porta a fare i conti col presente, insomma non finisce alla Corte penale internazionale per caso: è lì per un motivo preciso, una ragione personale con cui il lettore può identificarsi o comunque che può comprendere con facilità. È la chiave della letteratura di genere: rende l’universale personale» (a Jadel Andreetto) • «Da anni […]è socio di un importante studio di Chicago che allinea ben quattrocento avvocati, Sonnenschein Nath & Rosenthal. Ma è un avvocato irregolare, che lavora spesso e gratis per cause apparentemente impossibili. In queste cause impossibili ha spesso offerto il suo patrocinio a gente che rischiava la pena di morte» (Bignardi). È «contro la pena di morte non per un’avversione etica e congenita ma per aver toccato con mano e combattuto l’irreversibilità pazzesca della sciatteria investigativa, del razzismo delle giurie, dell’errore giudiziario che solo i ricchi hanno il potere di ribaltare (col denaro e una difesa adeguata) e continua a mandare sulla sedia elettrica decine e forse centinaia di poveri disgraziati. Innocenti. Lui un paio ne ha salvati. In un caso, lottando undici lunghissimi anni – è la storia (vera) di Alejandro Hernandez, condannato a morte per un delitto mai commesso. Anche per questo George Ryan, governatore dell’Illinois, nel 2002 l’ha voluto nella Commissione per la riforma della pena capitale» (Andrea Purgatori). Alla questione Turow ha dedicato anche un saggio, Punizione suprema: «Il nocciolo della questione è se sia possibile costruire un sistema che punisca solo i rari casi giusti, evitando di condannare anche persone innocenti o che non meritano il castigo» • Tre figli dalla prima moglie, da cui ha divorziato nel 2006; seconde nozze nel 2016. «Dopo il fallimento del mio primo matrimonio sono rimasto da solo per una decina di anni. Non voglio assolutamente sembrare misogino, ma per troppo tempo sono uscito con un campionario di donne una più pazza dell’altra. Mi è capitato di incontrare signore che non solo non erano quelle giuste, ma non erano neppure quello che sostenevano di essere. Forse è per questo che ogni tanto nelle mie storie capitano personaggi femminili con un certo grado di ambiguità» • Democratico. «Sono molto politico. Leggo i giornali ogni mattino. Ma è anche vero che, nella realtà quotidiana, gli eventi del mondo ci toccano appena nella nostra vita intima. […] Non voglio impostare discussioni politiche nei miei romanzi. Come ha detto Darryl F. Zanuck, “Se vuoi mandare un messaggio, usa la Western Union”» • Antica ossessione per il delitto Kennedy, «che non esita a definire “il giallo del secolo”. […] “È assolutamente plausibile che Oswald agisse con altri, ma ciò non prova il mandante di Cia, Johnson o mafia”. […] “L’unica pista cospiratoria secondo me plausibile è quella sovietico-cubana. Oswald aveva vissuto in Urss, ed è possibile che Castro, deciso a vendicarsi per la tentata invasione della sua isola, non sia riuscito a reclutare candidati migliori in America. Ciò spiegherebbe come mai in mezzo secolo non siano emerse gole profonde come il Mark Felt dello scandalo Watergate. Il regime dell’Avana è l’unico in grado di garantire il silenzio totale”» (Alessandra Farkas) • «Mi incuriosiscono i rom, […] un popolo diverso, che per secoli soprattutto in Europa è stato violato e oppresso. Forse per questo hanno esacerbato il loro individualismo: alcuni in bene, altri hanno virato verso comportamenti che finiscono per attirare l’odio degli altri. Sono perfettamente conscio da ebreo di quello che ci è capitato nella storia. Tutti abbiamo dovuto fare i conti con la nostra identità e il male che ci è stato fatto in passato, però è anche vero che quando mi ritrovo a parlare con i miei correligionari mi tocca ripetere: sentite, se ogni volta enfatizziamo questa storia del popolo eletto non possiamo che attirarci le antipatie della gente» (a Vittorio Macioce) • «Scott Turow […] assomiglia sempre di più ai suoi personaggi. Non ha certezze, non scommette su verità assolute, i suoi occhi brillano ogni volta che scorge qualcosa che lo può ancora sorprendere, cerca prove non per assolvere o condannare ma per svelare un altro pezzo di umanità» (Macioce). «Quello di Scott Turow scrittore è […] il percorso netto di un romanziere che, mettendo in scena i suoi casi preferiti (e i suoi tormenti), mantiene ormai stabilmente un posto al vertice della cosiddetta categoria degli scrittori di legal thriller. […] Per il momento gli va bene così. Almeno fino a quando non mollerà tutto per accettare una poltrona da giudice, “l’ultimo passaggio di un percorso naturale, se davvero ti piace la legge”» (Andrea Purgatori) • «Scelgo solo i casi che mi interessano di più, da un punto di vista romanzesco o legale. Fare l’avvocato mi permette di conoscere da vicino aspetti sempre inediti della natura umana, cosa che la letteratura da sola non sempre riesce a fare». «Nonostante il modo in cui i miei thriller sono scritti, nella mia pluridecennale attività di penalista ho imparato che, dietro i crimini più complessi e all’apparenza insolubili, la verità è sempre la più semplice» • «Mi piace molto scrivere al mattino. Per me una buona giornata di lavoro è quella in cui riesco a scrivere dalle tre alle cinque ore. È tutta una questione di disciplina. Una mia vecchia insegnante mi diceva sempre che bisogna mettere il culo sulla sedia tutti i giorni, perché i libri non si scrivono da soli. Tutto qui». «L’attività dello scrittore è definita dagli psicologi come un “gioco profondo”, che poi è la capacità che i bambini hanno di trasportare la propria immaginazione da qualche altra parte. Certamente scrivendo mantengo sempre vivo il mio bambino interiore. Onestamente siedo per ore a giocare con i miei amici immaginari, e questo mi rende molto felice» (a Elena Torre) • «Quale delle sue due vite ama di più? Avvocato o scrittore? “Senza una di quelle due vite, mi mancherebbe qualcosa. Io sognavo di fare lo scrittore. Ma è un lavoro che comporta un difficile isolamento. Mio nonno, un russo, quando ero ragazzino mi diceva: ‘Ma che razza di vita fai? Tutto il giorno chiuso in una stanza con una matita!’. Grazie al mio mestiere di penalista, vivo una vita di relazioni. Se avessi fatto solo lo scrittore, avrei potuto vivere tranquillamente in un’isola deserta”» (Brambilla).