Libero, 16 aprile 2019
Il problema dei maiali italiani
Per gli allevatori di maiali è crisi nera. Dopo la filiera del Pecorino Romano Dop rischiano di scoppiare pure quelle del prosciutto di Parma e del San Daniele. Il motivo è lo stesso: i prezzi all’origine della materia prima sono in picchiata. Ma se per il latte ovino della Sardegna si trattava sostanzialmente di un eccesso di produzione, nel caso dei maiali impiegati per la produzione dei due prosciutti Dop è la concorrenza straniera a mettere in ginocchio gli allevatori italiani. La carne di suino importata costa meno. Ma non soltanto perché i costi di produzione sono inferiori nei Paesi che ci fanno concorrenza, segnatamente Spagna, Germania e Olanda. Il differenziale di prezzo ha una motivazione squisitamente anagrafica. Il suino pesante italiano impiegato per il Parma e il San Daniele può essere macellato soltanto a 9 mesi, quando raggiunge un peso anche di 160 chilogrammi. Lo prevede il disciplinare di produzione delle due Denominazioni d’origine protette.
LARGO ALLE COSCE
Ma le due filiere assorbono soltanto le cosce. Il resto dei maiali «pesanti» finisce sul mercato a prezzi superiori rispetto a quelli della carne suina spagnola o tedesca, che proviene da capi macellati appena raggiunti i 5 mesi e circa 100 chili di peso. I quattro mesi in più richiesti dai disciplinari delle Dop allungano la vita ai nostri maiali ma mettono nei guai chi li alleva. A determinare la discesa dei prezzi sono diversi fattori concomitanti. Da un lato il calo nei consumi di carne suina e di salumi, dall’altro il boom della produzione in Spagna, passata nel giro di un decennio dai 20 ai 40 milioni di capi macellati ogni anno. Da noi sui 12 milioni di suini allevati, quasi 9 devono rispettare il disciplinare di San Daniele e Parma. L’effetto sui prezzi è macroscopico. Mentre un anno fa la carne suina da macello si vendeva a 1,50 euro al chilo, a marzo scorso il prezzo è sceso a 1,08 euro con punte massime di 1,18. Troppo poco per coprire i costi di allevamento. Il calo, prossimo al 30%, si è mangiato i margini alla stalla. Fra l’altro sono in calo pure le cosce. Per quelle destinate alle produzioni tipiche gli allevatori prendono 3,62 euro al chilo, per le altre, che entrano nella lavorazione dei prosciutti «generici» il prezzo scende a 3,13 euro. La debolezza delle quotazioni riflette in parte le previsioni troppo ottimistiche dei due consorzi Dop sulle vendite e in parte il boom delle importazioni. Ma c’è pure la grana delle etichette a semaforo, introdotte in Gran Bretagna e altri Paesi Ue che hanno fatto da freno alle esportazioni dei nostri salumi, per il contenuto di grasso.
SUINETTI SPAGNOLI
Non è un caso se i suinetti spagnoli e tedeschi, con un peso al massimo di 100 chili, più magri perché allevati e ingrassati meno dei nostri, sono in vendita a un prezzo superiore, anche 1,22 euro al chilogrammo. Indispensabile per la conservazione e la stagionatura dei prosciutti crudi, il grasso è sempre meno apprezzato dai consumatori, come testimoniano le numerose linee di salumi e affettati magri che si stanno conquistando spazi crescenti sui banconi dei supermercati. Così, il suino pesante italiano finisce per essere penalizzato proprio dalla caratteristica che lo rende unico nella filiera delle Dop. C’è poi l’annosa questione dell’origine della materia prima utilizzata nelle lavorazioni dei salumi al di fuori delle indicazioni geografiche. Grazie al Codice doganale della Ue è possibile etichettare come «made in Italy» un salume ottenuto da carne suina importata che abbia subito però l’ultima lavorazione nel nostro Paese. Mentre per il maiale fresco, come per la carne di bovino, è obbligatoria la dichiarazione d’origine, specificando paese di nascita, di allevamento e di macellazione del capo, per i salumi valgono le regole diaboliche del Codice comunitario. Così milioni di tonnellate di maiale importato si trasformano per magia in affettati made in Italy. E la filiera tricolore salta per aria.