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 2019  aprile 16 Martedì calendario

Tiger due, il ritorno

Di immutato c’è soltanto la giacca verde, sopra una maglia rossa. Per il resto, ventidue anni dopo la prima volta, tocca indossarla a quel che sembra il padre dell’uomo che vinse l’Augusta Masters di golf nel 1997. Ha meno capelli, uno sguardo tirato e la consapevolezza, al tempo stesso ferale e salvifica, che la vita possa essere un fiume carsico: ti inabissa ma, se azzecchi la corrente, ti fa risalire e viceversa. Per cui, quando sei sul fondo (appena diciassette mesi fa, numero 1190 della classifica), praticamente una pallina nello stagno, puoi sognare di riemergere, ma adesso che sei tornato a galla e schizzato come un geyser, adesso, povero ricchissimo uomo, e adesso, Tiger Woods?
C’è qualcosa di innaturale nello sport, ai più alti livelli: Valentino Rossi quarantenne fa a sportellate con il "figlioccio" Marc Marquez, Roger Federer tiene il punto con Alexander Zverev che ha sedici anni in meno e Fabio Quagliarella torna in Nazionale al fianco di un ragazzino di nome Moise Kean, che scalciava in culla mentre lui esordiva in Serie A. Nessuno di questi però si era mai concesso più che una vacanza nell’ombra; Tiger Woods aveva affittato casa nel buio più fitto. Per questo il suo ritorno viene celebrato come un miracolo, anche se in realtà assomiglia più a una bestemmia, contro il tempo e i tempi. Nell’impero del politicamente corretto e del me too risale sul trono il re nudo, quello che dieci anni fa scese senza uno straccio addosso dall’auto finita contro un idrante, il sessodipendente che, in una intervista dopo la prima vittoria del 1997, fece battute a raffica sulla superiore virilità dei neri e flirtò con tutte le ragazze presenti sul set fotografico.
Nella foto di gruppo degli stagisti alla Casa Bianca sono tutti pallidi? Anche sul campo da golf di Augusta, Georgia, tranne uno: ma è quello a cui infilano, come maggiordomi, le maniche alle braccia.
Tiger Woods è stato l’unico argomento capace di mettere d’accordo, in un elogio senza condizioni, Donald Trump e Barack Obama. Capite bene che la miscela è esplosiva, al limite di ogni possibilità. Genio e sregolatezza non sono gli ingredienti giusti. Il genio è cosa troppo grande per essere trasportato in una sacca e la sregolatezza un eufemismo per chi ha consumato milioni di dollari e dozzine di medicinali.
Si tratta di un’eccezione pura, così assoluta da fare il giro su se stessa e comprendere il proprio opposto.
Tiger Woods è stato tutto e il suo contrario: il caddie e il campione, il ragazzo pieno di senso e l’uomo fuori di testa, il figlio scavezzacollo che genera un padre rinsavito, l’eroe classico ferito al tendine d’Achille e il tipico impiegato del green, bloccato dal mal di schiena mentre raccoglie una pallina. Ha rallegrato le anime belle che credevano nelle favole, i cinici per scelta che tifavano contro il lieto fine e perfino, adesso, quelli che: «Aspetta, stai zitto: non è ancora finita», gli unici ad avere il senso della storia. Ha tirato fuori ai creativi degli sponsor slogan gassosi, tra Pindaro e Steve Jobs: «Non smettete mai di inseguire i vostri sogni più folli» e altri lisci, di contundente onestà: «Vincere sistema tutto». Vero, ma è ri-vincere che ri-mette ogni cosa in discussione. Il percorso non è più lineare: il sasso lanciato dal terzo piano rimbalza oltre il quarto, il Titanic torna in superficie e, già che c’è, va in porto, con l’orchestra sul ponte a suonare come niente fosse successo. E Tiger Woods, dato per finito, quindicesimo su diciassette al suo ultimo rientro, arriva primo due anni e mezzo dopo, nella gara più importante. Inspiegabile, come la sindrome chiamata Yips che dicevano lo avesse colpito: un disturbo improvviso che fa divorziare la mente dalla parte del corpo che più si usa, impedendo in questo caso il controllo delle braccia.
Come si è, altrettanto misteriosamente, riaggiustato? L’ipotesi è che alcuni, eccezioni pure, come noi regoliamo un timer, così spostino semplicemente più avanti il loro punto di non ritorno. A consentirglielo è una particolare confidenza con l’abisso. Non sono nati e cresciuti in quota, ma nelle stesse profondità in cui a un certo punto sono ricaduti.
Quello, per loro, non è un territorio ostile, nel quale sentirsi estranei e smarriti, ma casa, di nuovo. Da lì, la rinascita è una strada che conoscono, perché l’hanno già fatta una volta, quando erano più giovani e più forti, ma meno consapevoli. Sanno che cosa evitare: dare la colpa al destino, ai complotti, agli altri. E che cosa fare: riconoscere i propri errori, riposizionare le spalle, fare pulizia in testa e ammettere che si portano dentro, sempre, due nature e due possibilità. Proprio per questo temono quando riconquistano la cima e guardano avanti con quel sorriso tirato, temendo l’arrivo della suggestione di ri-lanciarsi nel vuoto. Ogni ritorno è uno spicchio di eterno: nessuno si bagna mai due volte nello stesso fiume, ma qualcuno, eccezionale, s’infila due volte nella stessa giacca.