La Stampa, 16 aprile 2019
Le scimmie super intelligenti
Una manciata di geni, una nuova architettura neurale o una specifica facoltà come il linguaggio: che cosa e quando ci ha reso umani è un quesito che attrae da sempre la scienza. Che non si limita più a osservare o dibattere. Grazie all’individuazione di geni legati a facoltà tipicamente umane e alle tecniche di editing genetico, le stesse all’opera con le gemelline cinesi geneticamente modificate venute alla luce lo scorso novembre, si può tentare di simulare l’evoluzione. Creando super-scimmie con cui studiare quella «spazzata selettiva» che ha portato alla comparsa di una mente come quella di Sapiens.
La notizia arriva ancora dalla Cina. I ricercatori, usando come vettore il virus dell’Hiv, hanno inserito nel genoma di 11 macachi reso la variante umana del gene microencefalina Mcph1, coinvolto nello sviluppo del cervello umano. Ne hanno ottenuto uno sviluppo neurale più lento, senza però variazioni nelle dimensioni del cervello delle scimmiette che, sottoposte a compiti di memoria a breve termine, hanno però dimostrato prestazioni migliori e minori tempi di reazione rispetto ai loro simili. «Questo è stato il primo tentativo di capire l’evoluzione della cognizione umana con un modello di scimmia transgenica», ha detto il genetista Bing Su, primo autore del lavoro pubblicato sulla rivista cinese «National Science Review», dato che non ha trovato spazio altrove, come riporta l’unico autore non cinese dell’articolo, l’americano Martin Styner dell’Università della North Carolina.
«È un tentativo di avvicinare per via genetica noi e loro. Il ramo evolutivo che ha portato a bonobo e scimpanzé, specie con cui condividiamo il 98,4% del patrimonio genetico, si è separato da quello del genere Homo 6 milioni di anni fa. L’antenato comune tra noi e i macachi è vissuto 24 milioni di anni fa: tanta è la storia evolutiva che ci separa – spiega Telmo Pievani dell’Università di Padova -. È quindi sbagliato pensare che possano esistere uno o più geni determinanti, i quali, sostituiti singolarmente, possano renderli umani». E comunque gli effetti a lungo termine sono ancora sconosciuti.
«Anche ammesso che si decida di condurre simili esperimenti, questi consentiranno di scoprire singole tessere di un puzzle che è molto complicato – aggiunge -. Oltre ai geni, ci sono i meccanismi di regolazione epigenetica, per studiare i quali bisognerebbe modificare l’intera popolazione e non certo a 11 esemplari». E poi «i geni interagiscono tra loro in modo non banale. Infine ricordo che l’evoluzione è un processo irreversibile e vede all’opera specifici contesti ecologici e determinate pressioni selettive».
Vi è un ulteriore aspetto, non meno scottante. Quello sulla liceità etica di un tale test. Pressoché unanime si è levata la condanna. «L’uso di scimmie transgeniche per studiare i geni umani legati all’evoluzione cerebrale è una strada rischiosa», è stato il commento di James Sikela, genetista dell’Università del Colorado, preoccupato che si possano tentare esperimenti ancora più estremi.
Tuttavia – commenta Pievani – «si ricorre ai primati proprio in virtù della loro somiglianza con noi, che è proprio il motivo per cui sappiamo già che soffriranno. Un ulteriore aspetto, non secondario, è che le sensibilità sono diffuse e molto forti e quindi esperimenti di questo genere possono portare a interventi legislativi restrittivi sull’uso della ricerca sugli animali, che finiscono per precludere altri tipi di studi, come quelli biomedici». Nell’articolo «L’etica dell’uso di primati non umani transgenici per studiare ciò che ci rende umani», apparso nel 2010 su una rivista del gruppo «Nature» e di cui Sikela è autore, si evidenzia che per la vicinanza evolutiva «tali scimmie transgeniche, più di altre specie, possono venire danneggiate da simili ricerche e questo rende simili studi eticamente inaccettabili».