Corriere della Sera, 16 aprile 2019
Il collaborazionismo al tempo di Hitler
Durante la Prima guerra mondiale i Paesi aderenti all’Intesa, cioè quelli che avrebbero vinto, non erano quasi mai riusciti a penetrare in territorio tedesco, austro-ungarico, bulgaro o turco, ciò spiega perché gli Imperi centrali si illusero fino all’ultimo che le sorti del conflitto non fossero segnate. E anche perché tra il 1914 e il 1918, quantomeno nell’Europa occidentale, la questione del collaborazionismo con il nemico non ebbe la centralità che avrebbe avuto tra il 1939 e il 1945. Centralità che in effetti rese, per così dire, più complicata sia la Seconda guerra mondiale che il dopoguerra.
Se ne occupa adesso lo storico americano di origini ungheresi István Deák con un libro esauriente e complesso, Europa a processo. Collaborazionismo, resistenza e giustizia tra guerra e dopoguerra, edito dal Mulino nella traduzione di Maria Luisa Bassi con un’introduzione di Guri Schwarz. Deák dedica idealmente il suo saggio a un giovane giornalista ungherese, Béla Stollár, fidanzato di sua sorella, un combattente liberale della resistenza che si era prodigato per mettere in salvo un buon numero di ebrei. Stollár il 24 dicembre del 1944 fu ucciso in uno scontro a fuoco dai miliziani del movimento fascista Croci frecciate, mentre tentava di occupare la sede di un giornale prima che arrivasse l’Armata Rossa (che stava per liberare Budapest) e se ne impossessasse. Tant’è che, quando l’Ungheria divenne comunista, Stollár non fu considerato un «risoluto nemico del fascismo». Se fosse sopravvissuto a quel disperato tentativo di sottrarre un giornale ai liberatori comunisti, forse per quel suo gesto avrebbe avuto dei problemi. Anzi, quasi certamente avrebbe passato dei guai.
Dopodiché Deák, anch’egli non comunista, lasciò il suo Paese nei giorni del 1948 in cui si instaurava il nuovo regime ed espatriò in Francia, dove riprese gli studi di storia medievale: fu lì che, da conversazioni ascoltate alla Sorbona, capì a poco a poco che «certi individui avevano fatto di tutto durante la guerra»; c’erano stati molti «autentici eroi» che erano poi diventati oggetto di una giustificata venerazione, ma c’era anche stato chi, di volta in volta, «aveva collaborato con gli occupanti tedeschi, lottato contro i tedeschi, combattuto contro i propri connazionali e, alla fine della guerra, aiutato a punire i colpevoli, spesso con lo scopo di distogliere l’attenzione dalle proprie passate colpe personali».
Tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà dei Cinquanta, i parenti di Deák, rimasti in Ungheria, erano stati sottoposti ad angherie non minori di quelle che avevano patito nel decennio precedente. Deák avrebbe poi confidato nella «rivoluzione ungherese» del 1956, ma quando l’insurrezione fu stroncata dai carri armati sovietici, per mettere uno spazio più grande tra sé e la sua terra d’origine, decise di emigrare definitivamente negli Stati Uniti. Di qui, sessant’anni dopo, ha provato a far luce su quella complicata stagione in cui il suo e altri Paesi precedentemente occupati dalla Germania nazista erano stati, appunto, liberati dall’Armata Rossa.
La sua analisi prende le mosse dalle modalità delle occupazioni hitleriane e dalle iniziali reazioni dei Paesi occupati. A cominciare dall’annessione dell’Austria nel 1938: qui le truppe naziste furono salutate quasi con entusiasmo, senza che contro di loro si registrasse una qualche reazione armata. Assai simile il caso della Cecoslovacchia, dove però alcuni membri del governo filotedesco lavorarono segretamente per quello in esilio a Londra rischiando, se scoperti, di essere fucilati come avvenne al primo ministro Alois Eliáš nel giugno del 1942. Quell’anno, il 1942, Londra accoglieva i governi in esilio di Polonia, Norvegia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia, Grecia e Jugoslavia. Ma diversi furono i modi in cui le popolazioni di ognuno di questi Paesi si comportarono al cospetto degli occupanti tedeschi.
In Cecoslovacchia «i collaborazionisti convinti ed entusiasti rappresentarono una minoranza»; paradossalmente i pochi esponenti del piccolo partito fascista ceco non furono favorevoli all’occupazione tedesca né godettero di rapporti privilegiati con gli occupanti. Furono, per così dire, più disponibili i comunisti: fintanto che l’Unione Sovietica fu «alleata» con la Germania – cioè fino al giugno del 1941 – il Partito comunista clandestino ceco esaltò i «valorosi lavoratori tedeschi in uniforme» e condannò gli «imperialisti occidentali». Poi però, anche per effetto del passaggio dei comunisti alla Resistenza, le cose cambiarono e a Praga nel 1942 si ebbe, con il concorso degli inglesi, il più spettacolare attentato antinazista, contro il Reichsprotektor di Boemia e Moravia, il generale delle SS Reinhard Heydrich. Attentato a cui seguì una sanguinosissima rappresaglia nazista, rappresaglia che in ogni caso, sottolinea, Deák, a quel punto «non incrinò la collaborazione generalizzata dei cechi con gli occupanti tedeschi».
A Varsavia le cose andarono diversamente e furono differenti a seconda che l’occupazione fosse comunista o nazista. Un polacco sotto l’Urss – scrive Deák – «con un po’ di furbizia» poteva riuscire a farsi accettare come militante o simpatizzante comunista, mentre nel Governatorato generale hitleriano nessun tipo di collaborazione fu mai richiesta o tollerata. Non ci furono mai polacchi arruolati nelle SS o comandanti e sorveglianti polacchi nei campi di concentramento. Diversamente dal protettorato ceco, fa notare Deák, la Polonia occupata non ebbe nessun presidente, nessun governo e nessun alto funzionario polacco dopo la fuga dell’intero esecutivo prima a Parigi e poi a Londra. E, se per i polacchi la vita sotto il dominio tedesco fu dura, per i tre milioni di ebrei essa «fu semplicemente una preparazione alla morte». Da notare che quando nel marzo del 1939 i nazisti entrarono a Praga, la Polonia ne approfittò per occupare una parte del territorio cecoslovacco. Sicché poi quando la stessa sorte, nel settembre 1939, toccò alla Polonia, l’ostilità ceco-polacca impedì perfino qualsiasi cooperazione fra le due comunità di esiliati.
Qualcosa di analogo accadde con la Finlandia. Tra il novembre del 1939 e il marzo del 1940, quando l’Urss si mosse contro il piccolo Paese di quattro milioni di abitanti e fu tenuta in scacco in quella che viene ricordata come la «guerra d’inverno», nessuno dei Paesi scandinavi accorse in aiuto («neppure sul piano diplomatico», sottolinea Deák) alla vicina Finlandia. «Essenzialmente», scrive Deák, «perché l’Unione Sovietica era allora alleata con la Germania nazista e nessun governo scandinavo desiderava urtare la suscettibilità di Hitler». Quanto a Norvegia, Danimarca e Olanda – che erano rimaste neutrali nel corso della Prima guerra mondiale – avevano cercato di conservare il loro status limitando fino all’incredibile le dimensioni delle loro forze armate. Sorprende, scrive l’autore, «che l’Olanda, un ricco Paese di quasi nove milioni di abitanti e dotato di un immenso impero coloniale, disponesse all’epoca di ventisei autoveicoli corazzati e non di un solo carro armato per opporsi a un’eventuale invasione tedesca». L’Olanda ribadì questa scelta, anche se lo stato maggiore, in base a documenti segreti in suo possesso, «sapeva con certezza che, in caso di guerra con la Francia e la Gran Bretagna, l’esercito nazista avrebbe invaso i Paesi Bassi, come effettivamente fece nel maggio del 1940».
Solo l’esercito norvegese oppose agli aggressori del Terzo Reich una breve, ma valorosa resistenza. Pagò questa reazione armata con un governo di un alto commissario tedesco assistito dall’autoproclamato primo ministro Vidkun Quisling. La Danimarca, invece, si arrese senza sparare un colpo, le fu concesso di continuare con la sua vecchia forma di governo, si alleò con la Germania e nel marzo del 1943 poté perfino indire libere elezioni nelle quali i socialdemocratici ottennero il maggior numero di voti, mentre il locale partito nazista dovette accontentarsi del 2 per cento.
Poi fu la volta della Francia, che nel giugno del 1940 si arrese alle truppe hitleriane: all’anziano maresciallo Philippe Pétain fu consentito di creare uno Stato collaborazionista in una parte del Paese che faceva capo a Vichy. Il termine collaboration per indicare «la volontaria offerta di appoggio operativo alla potenza occupante» fu coniato proprio da Pétain che dopo la stretta di mano scambiata con Hitler in un incontro a Montoir-sur-le-Loir nell’ottobre del 1940, proclamò: «Mi avvio oggi sul cammino della collaborazione». Ovviamente non ci sarebbe stata nessuna parità tra i due Paesi: i francesi dovettero pagare ai tedeschi una colossale indennità, oltre a sopportare i costi astronomici dell’occupazione, e furono costretti ad esportare in Germania derrate alimentari, materie prime e più tardi manodopera forzata senza alcun ritorno economico. Ma gli Stati Uniti riconobbero la Francia di Vichy, mantennero con essa rapporti diplomatici fino al maggio del 1942 e in quel frangente la parola collaboration non ebbe (eccezion fatta per Londra e per Charles de Gaulle) accezione negativa. Così, scrive Deák, «un termine perfettamente innocente venne a indicare, all’inizio, le speranze di una nazione profondamente umiliata». Poi, solo in seguito, divenne sinonimo di «codardia e tradimento».
Ai soldati occupanti tedeschi fu impartito l’ordine di «comportarsi in modo educato, rispettare i costumi locali e pagare sempre per i loro acquisti (anche se con una moneta d’occupazione di dubbio valore)». Come se fossero dei turisti. Le storie di brutalità nazista e di rigetto popolare della presenza militare tedesca diffuse dagli esiliati politici in Gran Bretagna, prosegue Deák, «furono in realtà la proiezione di pie illusioni». Smentite, peraltro, «dalle foto delle bionde e sorridenti ragazze danesi al braccio di soldati tedeschi e dalle eleganti parisiennes che assistevano in compagnia di ufficiali della Wehrmacht alle corse di cavalli di Longchamp». La «sobrietà» iniziale del comportamento tedesco fu dovuta al fatto che Hitler non aveva un progetto di conquista totale di questa parte dell’Europa. Lo aveva riservato, questo progetto, all’Europa orientale, e fu così che i nazisti «dovevano ottenere e in genere ottennero la cooperazione compiacente del Nord e dell’Ovest europeo». Nessuno dei Paesi occupati «negò la propria cooperazione agli occupanti», anche se nessuno «soddisfece completamente i criteri tedeschi».
Le cose cambiarono dopo l’invasione tedesca dell’Urss nel giugno del 1941. Ma il fenomeno del collaborazionismo proseguì. I cinegiornali propagandistici tedeschi mostravano immagini di bionde contadine ucraine in costume nazionale che offrivano il tradizionale pane e sale ai motociclisti tedeschi coperti di polvere che avanzavano nel loro Paese. Soldati defezionisti dell’Armata Rossa furono autorizzati a formare unità partigiane antisovietiche: oltre un milione di cittadini sovietici combatterono nelle forze armate tedesche. Ucraini, bielorussi, estoni, lettoni, lituani, caucasici e membri di alcune nazionalità asiatiche furono raggruppati in alcune unità «etniche» e arruolati nelle Waffen SS.
La parte più complicata (descritta in Europa a processo con dettagliata accuratezza) è quella che riguarda l’Europa orientale, dove il fenomeno del collaborazionismo fu davvero consistente. A fine guerra l’elenco degli europei non tedeschi giustiziati per aver collaborato con i nazisti comprese migliaia di persone. Centinaia di migliaia furono incarcerati e milioni furono colpiti da misure punitive di altro genere. Il record appartenne alla Bulgaria, dove il 2 febbraio 1945 i comunisti al potere giustiziarono l’ultimo primo ministro, ventiquattro ministri e sessantotto deputati per tradimento e crimini contro il popolo.