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 2019  aprile 16 Martedì calendario

Il grande incendio di Notre Dame

La Stampa
Lacrime e preghiere sui ponti
“Devono rifarla così com’era”
Francesco Spini
Ai tavolini della brasserie «Le Mistral» c’è chi ha il coraggio di ordinare un aperitivo e godersi lo spettacolo. E che spettacolo! Notre Dame brucia! «Ed è come se bruciasse Parigi, brucia il cuore di Parigi! Sono affranta, affranta», ripete Lucie coi suoi vent’anni. È qui tra i tanti parigini che si spingono fin dove si può, dove si può vedere lo scempio. «Si vedono le fiamme, non ci posso credere», dice Adue, mentre sta seduta sul muretto del Pont au Change e piange piano. Quello successivo, il pont Neuf è chiuso. Sopra, una fila di furgoni della polizia. Attorno, il caos, gente che invade i marciapiedi, i ponti, il Lungo Senna. Il panico dei primi istanti, quello è passato. «La cenere ci cadeva sulla testa», racconta chi era sull’Île de la Cité, quando tutto ha avuto inizio. Alcuni pompieri sono saliti sulle torri della facciata, la gente scappava, gridavano di correre via. Attorno il traffico è subito impazzito. «Tre anni fa hanno chiuso le corsie che corrono verso il Louvre, una follia. Ora è tutto bloccato e anche i mezzi di soccorso, i pompieri faticano ad arrivare», dice Damien, imprenditore quarantenne. È un fiume in piena mentre il suono delle sirene squarcia il brusio della folla. «Il problema è che il governo non investe per restaurare i nostri monumenti, e Notre Dame non è solo un monumento, è un simbolo di civiltà. E noi come lo difendiamo? Senza sussidi dal governo, solo i privati contribuiscono. Questo è il risultato: non ci sono nemmeno caserme dei pompieri vicini. Abbiamo avuto il Bataclan, e non c’è un piano d’azione. Non siamo gente seria se lasciamo succedere una cosa del genere». Pian piano scende la notte, da lontano il faro della Tour Eiffel fa da contraltare alle fiamme, che pure da lontano si vedono bene. «Ero in ufficio, ho capito subito che non era terrorismo e questo mi ha tranquillizzato», sospira l’avvocato 29enne mentre resta con lo sguardo fisso sulla guglia che non c’è più.
«Sto pregando per la mia chiesa, sono nato a Parigi e qui ho ricevuto la cresima. Come ha potuto bruciare così facilmente, possibile che nessuno mentre faceva i lavori abbia preso misure di sicurezza?», si indigna Aurelian, un architetto d’interni di 29 anni, stretto no suo cappotto. «Quando mi capita di lavorare in case private abbiamo mille accortezze, ce le impone la legge. Come è possibile sia accaduto tutto questo, qui? Come è possibile?», si chiede, assicurando che sì, «passerò qui tutta la notte, non abbandono la mia chiesa». Come lui, altri fedeli si radunano sul Lungo Senna per pregare, qualcuno canta. Molti piangono. Le sirene urlano.
Per i turisti è l’occasione di un selfie che non si ripeterà facilmente. «Eravamo seduti al caffè con altri turisti americani. Ci hanno detto: guardate il fumo, brucia Notre Dame! Non eravamo distanti», racconta Alba, partita dalla Spagna e che avrebbe visitato oggi la cattedrale. «Chissà quando la rivedremo». La gente affluisce, chi in monopattino, chi in bici, a piedi, anche per chilometri. I ragazzi si abbracciano, piangono insieme. A volte senza nemmeno capire il perché. «Non sono cattolica, non vado in chiesa ma questa cattedrale parla di noi, della nostra storia, di chi siamo. È un giorno molto trimestre per la Francia. Devono ricostruire tutto dov’era, com’era», grida Sophie, che studia filosofia e non sa smettere di piangere. Mentre Nostra Signora brucia e Parigi resta a guardare.
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 Ha visto il fumo e poi il fuoco uscendo dal suo studio «e nel giro di pochi minuti la notizia è stata chiara, sebbene sulle prime non ci si potesse credere». L’architetto genovese Renzo Piano, 81 anni, ieri era al lavoro nei suoi uffici in Rue des Archives. «Siamo sgomenti – riflette parlando con il figlio Carlo -. Il fatto che probabilmente non si sia trattato di un atto terroristico è l’unico motivo di sollievo. Ma restano le dimensioni gravissime della distruzione, di cui si dovrà capire nel dettaglio l’entità. Se, come pare, si è trattato di un incidente originato dal cantiere allestito a Notre Dame, devo osservare che purtroppo questo genere di eventi possono accadere, anche nelle strutture meglio controllate e gestite».
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Ha visto il fumo e poi il fuoco uscendo dal suo studio «e nel giro di pochi minuti la notizia è stata chiara, sebbene sulle prime non ci si potesse credere». L’architetto genovese Renzo Piano, 81 anni, ieri era al lavoro nei suoi uffici in Rue des Archives. «Siamo sgomenti – riflette parlando con il figlio Carlo -. Il fatto che probabilmente non si sia trattato di un atto terroristico è l’unico motivo di sollievo. Ma restano le dimensioni gravissime della distruzione, di cui si dovrà capire nel dettaglio l’entità. Se, come pare, si è trattato di un incidente originato dal cantiere allestito a Notre Dame, devo osservare che purtroppo questo genere di eventi possono accadere, anche nelle strutture meglio controllate e gestite».

“Io a cento metri
dal disastro
vedo la guglia
che si sbriciola”
Maurizio Assalto
Sirene assordanti, voci concitate... Professor Cardini? La voce si sente a fatica, sommersa dal frastuono. Lo storico medievista, che da tempo si divide tra la sua casa vicino a Firenze, San Marino dove insegna e Parigi, si trova proprio nella capitale francese, in place du Châtelet, a un centinaio di metri da Notre-Dame in fiamme. La sua abitazione parigina è poco più in là. Vorrebbe andare avanti, ma non si può. «Di qui vedo distintamente le due torri che bruciano. Ho visto letteralmente crollare la guglia centrale, quella ottocentesca, neogotica, rifatta da Viollet-le-Duc al posto della guglia precedente, che era molto diversa. In questo momento le fiamme sono alte come le torri, il cielo è coperto da una nuvola di fumo nero, c’è un vento sostenuto che spira da Est a Ovest – e questo peggiora la situazione, perché l’incendio si è sviluppato nella parte orientale e così si propaga al resto dell’edificio».
La cattedrale, dedicata alla Madonna, risale alla seconda metà del ’200 ed è stata più volte rivista e restaurata, spesso a causa di incendi, ma anche per scelte di politica culturale. «Di originale è rimasto poco, anche se i visitatori possono avere l’illusione di trovarsi di fronte a uno schietto esempio di architettura medievale, come danno a intendere molte guide», osserva Cardini. «L’impianto, le dimensioni, la forma sono inalterate, ma a partire dal ’500 il gotico non è più gradito, cambiano i gusti e quindi anche l’aspetto esterno».
Nel Sei-Settecento le modifiche sono pesanti: «L’edificio viene abbellito secondo i canoni barocchi del tempo di Luigi XIV – un barocco severo, razionale, francese, molto diverso da quello austriaco o spagnolo. Poi in periodo rivoluzionario Robespierre la volle riorganizzare come tempio del culto deista giacobino, con la Ragione, la Natura e la Libertà al posto della Trinità cristiana. Con Napoleone Bonaparte, che la sceglie per la propria incoronazione, Notre-Dame torna al culto cattolico, restaurata in modo decoroso, magniloquente, anche con diversi elementi posticci, ma specialmente all’interno risente ancora gli effetti della ristrutturazione settecentesca. La vera “restaurazione” è opera di Viollet-le-Duc, che però ci mette molto di suo. Anche certi simboli che vediamo oggi, e che tante guide riportano al Medioevo, sono in realtà ottocenteschi, di derivazione esoterica e massonica».
È interamente ottocentesco, per esempio, il rilievo del Giudizio Universale al di sopra del portale centrale, che come in tutte le chiese cristiane è dedicato al ritorno di Cristo come re. Alle due nature di Gesù, quella umana e quella divina, alludono le due torri della facciata, che possono anche essere lette come Vecchio e Nuovo Testamento che si fronteggiano. Mentre i tre portali, spiega Cardini, «corrispondono alle tre navate e hanno una profonda ragione simbolica. Quella centrale va dall’entrata, a Ovest, verso l’abside, rivolta a Est, in direzione di Gerusalemme: allude al percorso dell’uomo dal mondo del peccato verso la meta celeste. Le due navate laterali invece simboleggiano la storia umana: quella a Nord, dove il sole non batte, rappresenta il mondo del Vecchio Testamento, essenziale alla salvezza ma non ancora rischiarato dalla luce; mentre il Nuovo Testamento è rappresentato dalla navata a Sud. Entrambi i portali laterali sono dedicati a Maria, uno alla sua nascita e l’altro all’Assunzione. Ossia: non si arriva a Cristo se non attraverso la Vergine».
Peccato che ieri Nostra Signora non abbia potuto fare nulla per il suo tempio.
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Il dolore di Carlà: “Era parte di noi”
Emanuela Minucci
«Che disastro, hai visto mamma? La nostra adorata Notre-Dame è andata in briciole». Così Carla Bruni l’ex première dame di Francia ha commentato ieri sera al telefono con la madre, Marisa Bruni Tedeschi, il disastro che ha semidistrutto la cattedrale simbolo di Parigi. Poche parole, un messaggio telegrafico. «Siamo tutti angosciati» dice Marisa Bruni Tedeschi «Quella che sta andando a fuoco è la cattedrale in cui amavo portare i bambini a Natale, alla messa di mezzanotte, un gigante che era la rappresentazione plastica della forza e dell’orgoglio francese. Vederla agonizzare, così improvvisamente debole, divorata dalle fiamme, mi sconvolge».
Che cosa rappresenta per lei quest’incendio?
«Mi addolora molto. Per me sarebbe stato meno grave se fosse andata a fuoco la Torre Eiffel. Perché quella si può facilmente ricostruire, mentre Notre-Dame è un unicum. Lì dentro c’è la quintessenza della Storia, lo sanno tutti, la visitano 12 milioni di persone l’anno, è la cattedrale gotica più famosa del mondo, e sotto quegli archi rampanti è passata la storia dei francesi. É un nume tutelare per la città e per la nostra cultura: assistere al ferimento di quest’icona che ha scandito la storia di Francia, scoprirla improvvisamente vulnerabile è uno spettacolo che spezza il cuore».
Ha ricordi particolari legati a questo gioiello che è pure patrimonio dell’Umanità?
«Io vivo a Parigi dagli Anni Settanta, e come tutti i parigini ho un legame fortissimo e fatto di piccole storie quotidiane con la nostra cattedrale: sotto quelle magnifiche navate ho acceso candele per chiedere una grazia o, più spesso, sono andata per ascoltare un concerto: ricordo una magnifica passione di Bach e un intensissimo Requiem di Mozart: emozionanti come mai».
Dalla sua finestra ha potuto vedere il fumo e le fiamme?
«Le avrei potute vedere nella mia prima casa francese che distava poche centinaia di metri dalla cattedrale. Ora abito lontana dal centro,ma lo strazio non dipende certo dalla vicinanza o meno. Notre-Dame è nel cuore di tutti, ovunque ci si trovi.É un luogo dell’anima. L’unica speranza è che i vigili del fuoco, qui molto efficienti, facciano un miracolo».
Li ha visti all’opera?
«Purtroppo sì. In Francia le mie case hanno subito ben due incendi. Non sono pochi. É non c’è nulla di più angosciante. Grazie alla professionalità dei pompieri, abbiamo salvato molte cose, speriamo si limitino i danni anche per un bene supremo come Notre-Dame».
Più l’incendio si propaga e più le speranze che la cattedrale si salvi nella sua integrità si affievoliscono.
«Sto seguendo in diretta questa pena e una cosa è certa: qui a Parigi sarà una notte di sonno difficile».
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Da Victor Hugo al général De Gaulle
Culla di fede dove si è fatta la storia
Alberto Mattioli
Notre-Dame è, o forse con dolore si deve dire era, uno di quei monumenti così celebri che ognuno di noi, anche chi non c’è mai entrato, ne ha un’immagine, un ricordo, magari soltanto un flash.
Per chi ha memoria storica, c’è solo l’imbarazzo della scelta. In pochi posti del mondo, in effetti, di storia se n’è fatta tanta: visite papali e incitamenti alla crociata, guerre e rivoluzioni, l’incoronazione a re di Francia di quello d’Inghilterra Enrico VI nel momento peggiore della guerra dei cent’anni (i re di Francia, quelli veri, si facevano consacrare a Reims) e il processo di riabilitazione di Giovanna d’Arco, il matrimonio di Maria Stuarda e la Dea Ragione, una ballerina, portata in trionfo sull’ex altar maggiore durante la Rivoluzione. E poi: l’autoincoronazione di Napoleone e il «Te Deum» celebrato dopo la Liberazione davanti al général De Gaulle, che aveva risalito a piedi gli Champs-Élysées, incurante che qualche cecchino tedesco sparasse ancora, mentre suonavano le campane mute dal 1940.
Per i turisti, per chiunque sia stato uno di quei 13 milioni di visitatori che ci entrano ogni anno dopo code e controlli, Notre-Dame è un’icona di Parigi, un profilo familiare che poi, visto dal vivo, risulta quasi deludente (in effetti, è come il Duomo di Milano o le stoffe inglesi: meglio da dietro); per chi a Parigi cerca ancora il romanticismo, una massa grigia che incombe su una Senna in bianco e nero, come in una foto di Doisneau, o che sorge dalla Senna mentre fai il giro in battello.
Per i fedeli, è la madre delle chiese di Parigi, il prodotto di nove secoli di cattolicesimo iniziati nel lontanissimo 1163, la fede fatta pietra della «figlia prediletta della Chiesa», quella Francia oggi maggioritariamente atea, o agnostica, ma le cui radici sono lì, e capace sempre di ravvivare una religiosità stanca con figure eccezionali, come l’ex «proprietario» di Notre-Dame, il cardinale Lustiger arcivescovo di Parigi, ebreo convertito, accademico di Francia, capace di dialogare anche con i laici. Che infatti affollavano le sue omelie.
Per gli appassionati delle arti, è lo scenario di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, la cui pubblicazione, nel 1831, fu decisiva per «lanciare» i grandi restauri ottocenteschi e appassionare la pubblica opinione al gotico, già considerato «barbaro». Infatti sotto Napoleone I la chiesa era così malridotta che per nasconderlo si appesero alle pareti le bandiere prese al nemico ad Austerlitz. E ancora: quelle navate, coperte da una folla di dignitari, marescialli, falsi principi e veri cardinali, sono lo sfondo del Sacre di David, o l’eco della voce di Edit Piaf che canta, appunto, Notre-Dame de Paris. E pazienza se l’edificio attuale è un pasticcio, un finto gotico o meglio l’idea che del gotico avevano i romantici in generale e in particolare Viollet-le-Duc, il grande restauratore (o ricostruttore). È passato tanto tempo che quel finto gotico è diventato vero. Come sarà vera la nuova Notre-Dame, quella che nascerà dai restauri dopo questa tragedia. Sarà un’altra cosa, ma sarà ancora e sempre Notre-Dame.
Questo è il destino delle icone: parlare a tutti, e a ognuno dire qualcosa di diverso. «Come tutti i nostri compatrioti, stasera sono triste di veder bruciare questa parte di noi», twitta Emmanuel Macron. Però, come diceva Thomas Jefferson, ambasciatore americano a Parigi in epoche più propizie alla grandeur, «ogni uomo ha due patrie, la sua e la Francia». I francesi si possono anche detestare, ma non si può negare che questo sia vero. Parigi resta una delle poche città «globali». Non è più, e da tempo, una delle capitali politiche del mondo. Ma resta una capitale della bellezza, della cultura, del sogno. Per questo veder bruciare Notre-Dame è un incubo per tutti, non solo per i francesi.
Al solito, la catastrofe si consuma in diretta tivù, mentre le fiamme si alzano sempre di più nel cielo che si scurisce. È un’angoscia vedere il tetto che crolla, la flèche, la guglia di legno alta 45 metri e pesante 750 tonnellate (un altro vero falso della cattedrale, peraltro: risale al 1860) non svettare più sui tetti di Parigi. Ricostruiranno, restaureranno. Perché nonostante queste fiamme, ne siamo sicuri, Notre-Dame non era, è. Parigi, cantava Maurice Chevalier, sarà sempre Parigi: e Parigi, e la Francia, e l’Europa, e quello che siamo, senza Notre-Dame non è nemmeno immaginabile.
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“Una catastrofe per la cristianità
Ora la Chiesa superi le divisioni”
Choc in Vaticano. Il cardinale francese Poupard: è caduto un pilastro della nostra umanità
Domenico Agasso Jr
«È una catastrofe per la cristianità e per i fedeli di tutto il mondo. Ci scuote duramente. E ci chiama a mettere da parte le divisioni che stanno affliggendo la Chiesa». È disperato al telefono il cardinale francese Paul Joseph Jean Poupard, storico delle religioni, presidente emerito del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso. Una figura di spicco della Curia romana. «Non riesco a staccare lo sguardo dalle scene angoscianti in tv», dice il Porporato 89enne dalla sua abitazione vaticana. «Mi sento annientato qui da quelle fiamme che stanno piegando Parigi e distruggendo il cuore spirituale di tutto il Paese». Il «devastante» incendio nella cattedrale di Notre-Dame «mi sembra una scena di un film, è incredibile. Non riesco a crederci», ripete con insistenza.
Poi sottolinea: «È un dramma enorme non circoscritto alla Francia e ai francesi, lo è per il pianeta intero». Non si tratta di un crollo «di mura e pietre: è venuto giù un “pilastro portante” della cultura e della storia, la storia dell’umanità, di tutti i Paesi, dall’Europa all’America».
Riaffiorano in Poupard i ricordi personali del suo periodo nella capitale di Francia: «Ero rettore dell’Istituto cattolico, incarico che ho ricoperto per dieci anni. Sono stato tante volte a Notre Dame, ho tenuto conferenze e partecipato a convegni». Nella mente «e nel cuore mi stanno scorrendo vorticosamente le immagini di quei momenti. E delle migliaia di fedeli, pellegrini e turisti che ogni giorno ammiravano a bocca aperta Notre Dame».
Ma Poupard, da uomo di fede, vuole pensare anche al futuro. Subito. «Proprio in questo momento storico così difficile e travagliato per la Chiesa universale, la tragedia di Notre-Dame, luogo simbolo della cristianità, ci deve unire. Deve riunire in armonia tutti i cristiani». Perché le fiamme di Parigi sono «qualcosa che supera le nostre divisioni. Deve essere così».
Pensando ai fedeli, Poupard suggerisce: questo incidente forse irreparabile, qualunque sia la causa, «deve anche farci pensare alla nostra esistenza terrena, ricordandoci che è precaria, fragile, imprevedibile. E ci deve insegnare che va vissuta mettendo al centro le cose essenziali della vita». A cominciare dalla «fratellanza». E un segno che il Cardinale non sottovaluta è la «solidarietà immediata che sta arrivando a Parigi da molti paesi e dalla gente comune»: il sentimento «di unione che si respira aiuterà certamente ad affrontare il momento tremendo, i danni deprimenti, e a rialzarsi da questa caduta così rovinosa».
Anche la Santa Sede si è espressa, comunicando in una nota ufficiale di avere «accolto con shock e tristezza la notizia del terribile incendio». E dedica un pensiero ai «pompieri e quanti stanno facendo il possibile per far fronte alla drammatica situazione».
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Dal Duomo di Torino alla Fenice di Venezia
Le fiamme che bruciano la nostra civiltà
Pierangelo Sapegno
Quando colpiscono i simboli di una comunità, i roghi sembrano andare oltre la mera casualità. Gli incendi peggiori sono quelli che bruciano anche la Storia. E qualche volta cominciano con un atto demenziale, come alla Fenice di Venezia, 29 gennaio 1996, quando le fiamme si sprigionano nel soffitto del foyer, appiccate semplicemente da due elettricisti coinvolti nella manutenzione del teatro, che per evitare il pagamento di una penale dovuta ai ritardi nei lavori della loro impresa, avevano deciso di causare quello che doveva essere un piccolo rogo. Erano le 8 di sera. Il mattino dopo quel piccolo rogo divampava ancora, ed era venuto giù il tetto delle Sale Apollinee e le fiamme continuavano a correre in quel catino fumante e sui cumuli di macerie, dove prima c’erano gli ori e gli stucchi di uno dei teatri più belli del mondo.
Il Petruzzelli di Bari invece bruciò il 27 ottobre del 1991, senza che noi adesso avessimo ancora capito perché, pur essendo stato consegnato alla giustizia l’esecutore materiale. L’incendio fu acceso nella notte, divampando dalla platea del teatro per arrivare subito a distruggere il palcoscenico e trasformando in un guscio vuoto quel monumento della cultura. Anni e anni di indagini non arrivarono a trovare né un movente né un mandante, dopo aver percorso le piste più svariate della malavita e della mafia.
Per la Sindone di Torino, omissioni e imprudenze furono forse le maggiori responsabili. Era la notte fra l’11 e il 12 aprile del 1997 e le fiamme devastarono la cappella barocca del Guarini, costruita nel 1668 per custodire la Sindone, e si estesero al torrione nord ovest del palazzo distruggendo dei quadri preziosi. I vigili del fuoco riuscirono a portar fuori il lenzuolo nel quale la tradizione dice sia stato avvolto Gesù dopo la crocifissione. Quella notte d’incubo è ancora ferma nel ricordo della città.
Ma gli incendi più grandi nel mondo sono quelli di Londra e Chicago. A Londra, oggi, da più di trecento anni i suoi cittadini continuano a chiamarlo The Monument quella colonna in stile dorico alta sessantun metri, eretta da Christopher Wren e Robert Hookend, a partire dal 1671, per ricordare il Great Fire che divampò nella notte del 2 settembre 1666 in Podding Lane, per terminare dopo cinque giorni al Pye Corner. La città era stata appena devastata dalla peste che l’aveva colpita l’anno prima, nel 1665. La Great Plague l’aveva quasi svuotata: la Corte si era riparata a Oxford e la popolazione era scappata disperdendosi nelle campagne. Per questo le fiamme non fecero strage di vittime. Però, distrussero la City. Il fuoco sollecitato da un forte vento spinto da Est fece scempio di 176 ettari sbriciolando 460 strade, 89 chiese, fra le quali la cattedrale di St. Paul, e tredicimila case. Dopo cinque giorni nell’area compresa a sud delle colline Kent e Surrey e a Nord di quelle di Hampstead e Highgate fu impossibile trovare traccia dell’antica City, delle sue costruzioni medioevali e di quelle elisabettiane. Quell’incendio distrusse davvero un pezzo di Storia.
Come accadde a Chicago l’8 ottobre 1871, quando più di centoventi chilometri di strade, 190 km di marciapiedi, duemila lampioni e 17500 edifici furono bruciati dalle fiamme. Su trecentomila abitanti, novantamila restarono senza abitazione. Il fuoco ebbe origine in un edificio di legno adibito a stalla e granaio, vicino alla Dekoven Street, una viuzza sterrata che si infilava fra case di legno e mattone. Il diffondersi del fuoco fu provocato proprio dal fatto che la maggior parte degli edifici erano costruiti in legno, e dal forte vento che soffiava e dalla siccità di quei giorni. In più, l’amministrazione cittadina compì i suoi errori non reagendo con il dovuto tempismo: i vigili del fuoco alla prima segnalazione arrivata da una farmacia non risposero ritenendo che la nuvola di fumo fossero i resti di un incendio del giorno prima.
Solo quando il fuoco guadagnò terreno intervennero con decisione. Troppo tardi. Fu distrutto persino l’acquedotto. I morti furono più di 200. Scrissero che il rogo era cominciato perché una mucca scalciando una lanterna l’avrebbe fatta cadere sul fieno del pavimento. Ma il giornalista repubblicano Michael Aern, che aveva creato questa versione, ammise, tanti anni dopo, nel 1893, di aver inventato tutto per rendere la storia più colorita. Più terribile di così?
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