la Repubblica, 15 aprile 2019
Kaiser, il calciatore che non ha mai toccato palla
Da domani al cinema “Kaiser!”, regia di Louis Myles la vicenda di Raposo, grande truffatore del” futebol"
Come calciatore aveva solo un piccolo problema, il pallone, ma per tutto il resto era perfetto. Giovane, atletico, brasiliano, gli amici giusti, una parlantina formidabile, il senso degli affari, ma soprattutto la capacità di ipnotizzare con le parole. Carlos Henrique Raposo, classe 1963 (ma classe poca, anzi zero) è stato il più grande giocatore a non avere mai giocato a calcio, facendo però credere al mondo il contrario. Era l’inizio degli anni Ottanta, non esistevano Internet e Google, non si potevano controllare verità e falsità all’istante (le falsità vere, le verità false), dunque per i millantatori era una pacchia.
Così è nata la leggenda di Kaiser: tutti i calciatori brasiliani hanno un soprannome e quello di Carlos discendeva direttamente da Franz Beckenbauer, il vero kaiser degli stadi che Carlos un poco ricordava nei tratti del volto, nei riccioli e nell’incedere a testa alta, ovviamente senza palla. Grazie alle amicizie di ragazzino con atleti diventati poi stelle del “futebol” come Bebeto e Romario, il buon Carlos riuscì a farsi ingaggiare a vent’anni addirittura dal Botafogo, dove cominciò il grande inganno di questo strepitoso parassita: infortuni simulati, malanni inventati, e alla scadenza del contratto (li firmava di 6 mesi ma non certo a buon mercato, grazie all’intercessione degli amici campioni ai quali chiedeva di essere inserito come contropartita tecnica nei loro cambi di maglia), ecco il trasferimento altrove per buggerare nuovi tifosi, dirigenti e giornalisti. Un’arte, a suo modo, che è diventata un film: Kaiser!, del regista americano Louis Myles, da domani nelle sale italiane con Mescalito Film. Vi compaiono anche il vero Carlos Raposo e i suoi divertiti complici, Renato Gaucho, Edmundo, Zico, Bebeto. Tutti la raccontano come una favola, la parabola della scatola vuota, Pirandello e Vanna Marchi insieme. «Una bella storia è uno strumento potente!» dice a un certo punto Kaiser ormai ultracinquantenne, di professione personal trainer (sedicente, come tutto il resto) ma di sole donne, la sua merce: le procurava ai compagni nel segreto degli hotel, nelle notti dei ritiri e in cambio otteneva il lasciapassare per quel mondo.
Fu tra i primi a girare con un enorme telefono cellulare, lì dentro parlava a nessuno simulando contatti con club europei: quell’arnese era un giocattolo, però non c’è niente di più vero del falso che sembra verissimo. Ma alla fine del film, Carlos (non l’attore, proprio lui) guarda fisso in macchina con gli occhi inondati di lacrime, e dice: «Ho avuto un’infanzia terribile, ho fatto tutto questo per scappare dalla miseria e soffro, soffro molto. Perciò ho vissuto le vite degli altri: per non pensare alla mia». Chissà se è vero, chissà chi è vero.