Libero, 15 aprile 2019
Biografia di Pasquale Tridico, nuovo presidente dell’Inps
Solo qualche giorno fa l’Ocse ha certificato che l’Italia si conferma uno dei posti del mondo dove cuneo fiscale e costo del lavoro sono più elevati. Misurando la differenza tra gli oneri sostenuti dal datore di lavoro e quello che arriva effettivamente nelle tasche del dipendente, dopo aver sottratto l’imposta personale sui redditi e gli adempimenti sociali e contributivi a carico di entrambe le parti, e tenendo anche conto degli assegni e delle agevolazioni fiscali per le famiglie, l’ultimo rapporto Taxing wages riferito al 2018 calcola che per i nuclei familiari con due figli nei quali lavora solo una persona quello che rimane è il 39,1% a fronte di una media Ocse del 26,6%. Se si guarda invece ai single, la percentuale schizza al 47,9%, in aumento di 0,2 punti sul 2017, rispetto ad una media Ocse del 36,1%. Dentro queste cifre c’è gran parte dello svantaggio competitivo dell’Italia, della sua cronica scarsa produttività, della sua incapacità di restare al passo con le economie occidentali. Problemi che Pasquale Tridico conosce bene. Il professore a cui Luigi Di Maio è riuscito ad affidare le chiavi dell’Inps, dopo aver provato a piazzarlo al ministero dell’Economia (il suo nome era nell’elenco dei ministri inviato per mail a Sergio Mattarella durante la campagna elettorale di inizio 2018), in un saggio di 4 anni fa scriveva che il nostro Paese è afflitto da «una triplice combinazione negativa: una bassa produttività, bassi livelli di occupazione, bassa dinamica del pil». Sulla diagnosi ci sono pochi dubbi. Ma sulla cura la questione è tutt’altro che pacifica. Taglio delle tasse, incentivi alle assunzioni, investimenti in ricerca e innovazione, flessibilità contrattuale, velocizzazione della giustizia civile, semplificazione normativa? Macché.
I VERI NEMICI
Tridico, classe 1975, ultimo di sette figli cresciuto nel piccolo borgo calabrese di Scala Coeli, nel percorso che lo ha portato dal liceo scientifico della suo paesino natale all’Università degli Studi Roma Tre, dove dal 2015 insegna Politica economica ed Economia del Lavoro, ha sviluppato idee ben precise sulle cause che hanno portato l’Italia nel pantano. Strenuo sostenitore delle politiche keynesiane, una laurea in Scienze politiche alla Sapienza di Roma nel 2000, un curriculum non stellare con due o tre esperienze internazionali come ricercatore, Tridico attribuisce una parte di responsabilità alle politiche di austerity. Ma i veri nemici sono le imprese, che hanno inseguito i profitti, sostiene il professore, «per lo più sfruttando la manodopera a basso costo per rimanere competitivi piuttosto che effettuare investimenti e creare innovazione per aumentare la produttività del lavoro». La tesi è che le aziende al posto di formare capitale umano qualificato, abbiano utilizzato i precari per abbattere i costi e restare a galla sul mercato. Ed ecco, dunque, la cura: «È urgente invertire le politiche di estrema flessibilizzazione del mercato del lavoro», perché «le evidenze empiriche mostrano che sono i Paesi con mercati meno flessibili a presentare le migliori performance in termini di produttività del lavoro in Europa». Nasce da qui, inutile dirlo, il decreto dignità della scorsa estate, che ha penalizzato i contratti a termine, provocando un emorragia di posti e un esercito di nuovi sottoprecari, assunti come lavoratori occasionali con stipendi più bassi e meno tutele di prima.
SUSSIDI A VOLONTÀ
Accanto ad una maggiore rigidità del lavoro, per bloccare l’avidità degli imprenditori servono anche sussidi a volontà, perché il reddito deve essere redistribuito sia per questioni etiche sia per questioni salariali, in chiave antisfruttamento. Nasce così l’idea del reddito di cittadinanza, di cui Tridico è ideatore, promotore e ora, da capo dell’Inps, anche esecutore, visto che sarà l’istituto di previdenza ad erogare gli assegni. Se fin qui vi è sembrato di ascoltare Fausto Bertinotti, aspettate di sentire il resto. Già, perché nel corso di una delle sue prime uscite pubbliche da presidente dell’Inps, il professore, che i maligni sostengono abbia sbaragliato la concorrenza per abbandono degli altri candidati, ha rispolverato nientemeno che il vecchio slogan della sinistra extraparlamentare degli anni 70: lavorare meno per lavorare tutti. Ecco la teoria. «La riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, può funzionare come leva per ridistribuire ricchezza e aumentare l’occupazione», ha spiegato Tridico durante l’inaugurazione di un Master alla Sapienza di Roma, aggiungendo che in Italia «non ci sono riduzioni da 50 anni e invece andrebbe fatta. Gli incrementi di produttività vanno distribuiti o con salario o con un aumento del tempo libero».
MENO ORE STESSA PAGA
In sostanza, mentre tutte le imprese per sopravvivere alla crisi stanno cercando di aumentare la competitività attraverso una compressione lenta degli organici a parità di produzione, che significa maggior lavoro distribuito tra meno persone, il prof di fiducia del leader pentastellato pensa che i problemi italiani si risolveranno costringendo le aziende a produrre la stessa quantità di beni e servizi utilizzando più lavoratori, impiegati per meno ore la settimana ma con la stessa paga. Messa così, non sembra proprio una genialata. Del resto, se è vero che negli anni Novanta la tesi era molto in voga, oggi a sostenerla con forza, oltre a qualche vecchio sindacalista e ai nostalgici di Rifondazione comunista, sono solo i grillini e il sociologo Domenico De Masi, tra gli ispiratori del programma pentastellato. «Dopo un quarto di secolo di ricerche svolte da economisti appartenenti a diverse scuole e orientamenti politici, nonché di sperimentazioni a tutti i livelli», precisa il giuslavorista di sinistra Pietro Ichino, «né gli studi teorici né l’osservazione empirica confermano l’utilità della riduzione generale di lavoro mediante legge o contratto collettivo». L’idea di fondo è sempre la stessa: invece di aiutare chi crea ricchezza a farne di più, si cerca di dividere quella che c’è. Piuttosto che far crescere la quantità di lavoro, si tenta di aumentare la quantità degli occupati. Il conto lo pagheranno i contribuenti, finché qualche euro rimane in tasca. Ma, prima o poi, finiranno anche quei pochi spicci.