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 2019  aprile 15 Lunedì calendario

Intervista a Marco Risi

«Fare un film su Roma? Ci sarebbe molto da raccontare ma non è facile. Mi incuriosiscono tante cose, mi piacerebbe mostrare la mollezza e la presunzione, siamo circondati da persone convinte di sapere tutto e non sanno niente». Marco Risi è seduto nel salotto della sua casa, che è un po’ come lui, dotata di eleganza naturale. Antica e tecnologica, stucchi e parquet, un maxischermo da cinema. Le foto del padre Dino e della madre Claudia, del figlio Tano, dell’amico fraterno di una vita, Carlo Vanzina. Ironico, dono della sintesi e della battuta, come il padre coltiva il cinismo, ma stemperato: non diventa mai completo distacco. L’occasione è il debutto nella lunga serialità con L’Aquila- Grandi speranze, sei puntate da domani su Rai 1 («Ma per me è un lungo film»), storia del dopo terremoto vissuto dagli adulti (Giorgio Tirabassi, Valentina Lodovini, Giorgio Marchesi, Donatella Finocchiaro, Luca Barbareschi, Enrico Ianniello, Carlotta Natoli, Francesca Inaudi) e dai ragazzi, le grandi speranze. Ma la conversazione con Risi spazia su tutto. Ha diretto film di impegno civile, Mery per sempre, Il muro di gomma, Fortapàsc, esplorato il cinema di genere, L’ultimo Capodanno, Tre tocchi, ha raccontato Maradona nel film La mano de Dios. Ha firmato («L’ho fatto per il mio amico Carlo Vanzina») il primo cinepanettone prodotto da Netflix, Natale a 5 stelle, farsa sulla politica attuale.
Con quello che succede non la incuriosirebbe raccontare la politica per quella che è?
«Vuol dire girare un film politico? Avevo pensato alla storia di un politico del Nord che arriva a Roma con grandi ideali e viene travolto dall’amatriciana, dalle donne e il resto. Quando arrivarono i leghisti sembrava dovessero fare la rivoluzione: poi Roma li ha inghiottiti. Li vedevi buttati nei ristoranti».
Anche il ministro Salvini mangia e mette i piatti su Facebook, però è arrivato dov’è arrivato.
«Salvini ha svoltato perché ha capito tante cose prima degli altri. Sono difficili i film sulla politica perché è complicato capire l’attualità».
In che senso?
«Ho visto Di Maio ospite da Fazio, sono sinistramente attratto quando sento parlare i politici. Anzi, mi sembra che dicano cose giuste e che alla fine abbiano tutti ragione. Non è così. Mi ricorda un film politico recente?».
"Il caimano" di Nanni Moretti.
«Era un film su Berlusconi. C’è tanto cinema che racconta la realtà e diventa politico, forse quelli sono i film più difficili».
Suo padre fotografò l’Italia con "Una vita difficile", il voltagabbana Alberto Sordi è indimenticabile. Era un film politico, non trova?
«Lo era, certo, ma era una commedia».
Perché è sparito il cinema di genere?
«Ogni tanto c’è chi ci prova, ma siamo invasi da commedie tutte uguali: capodanni, gay.
Sembrano scritte col ciclostile».
Lei è partito da film inchiesta poi che è successo?
«Non volevo rimanere chiuso nel clichè dei film d’impegno, il mio obiettivo era fare buoni film. Quando mio padre vide
Mery per sempre mi guardò con occhi diversi. Avevamo un rapporto bellissimo, era intelligente e molto simpatico.
Gli altri discutevano coi padri, non credo di averci mai litigato.
Ho scritto un libro su di lui, ci ho messo sei anni. Uscirà a gennaio per Mondadori».
Nel suo film "Tre tocchi", ha reso omaggio al mestiere dell’attore. Perché?
«Perché è il mestiere più precario che c’è. Su mille che vogliono fare questa carriera, come dice la canzone, uno su mille ce la fa».
È soddisfatto della sua carriera di regista?
«Non sono mai soddisfatto».
Netflix ha cambiato le cose?
«Sì. Steven Spielberg già dieci anni fa ha anticipato quello che sarebbe successo. Al cinema resistono solo i blockbuster, gli altri spariscono. È cambiato tutto. Roma di Cuaron, prodotto da Netflix, vince a Venezia. Lo stesso Cuarón spiegò di aver ricevuto un’offerta che non poteva rifiutare. "Ha ceduto al vil metallo" come diceva Fernando Rey in un film di Buñuel».
Segue le serie?
«Ho trovato bellissima The night of con John Turturro, le prime due stagioni di True detective e
Breaking bad ».
Com’è stata l’esperienza a L’Aquila?
«Siamo stati lì cinque mesi e mezzo. Per me era fondamentale girare nella scuola, ancora combinata male.
C’erano i calendari del 2009 con la data di aprile, una pianta secca che si arrampicava.
Impressionante».
Ha girato la serie a dieci anni dagli eventi: ci vuole la giusta distanza?
«È fondamentale. Mai buttarsi come uno sciacallo. Ci vuole il tempo del rispetto, e un tempo etico. Le "grandi speranze" del titolo sono il futuro, i ragazzini.
Non è una fiction d’inchiesta. È bella l’idea di raccontare le reazioni degli adulti che cercano di ricostruire la propria vita e dei figli che guardano avanti e vivono nuove avventure. Con la tua banda ti senti libero: mi piace pensare che i più piccoli in bicicletta si siano riappropriati del centro storico».
Che sensazione ha provato esplorando la città?
«Sono stato a L’Aquila per la prima volta un anno e mezzo dopo il terremoto, il tempo in cui si svolge il nostro lungo film.
Non conoscevo la città e non sapevo della sua bellezza, era ricoperta dalle impalcature, avvolta nei teli. Mi impressionò il silenzio, sentivo il rumore dei miei passi. Pensai: devo venire a girare un film. Anni dopo ci sono tornato per la serie. Le cose abbandonate sono quelle importanti. Stefano Grasso ha ideato questa storia: a lui come a me, piace espolorare le conseguenze degli eventi».
Ha un progetto per il cinema?
«Immagino da sempre un film e penso di rovinarlo girandolo,
Settimo cielo, la storia di un ragazzo che vive sui tetti. Sui tetti c’è una certa vita, sa. E poi ne ho un altro, ambientato in un ospizio, su un ragazzo che per punizione viene mandato ad assistere i vecchi. Un po’ come Jack Nicholson che in Qualcuno volò sul nido del cuculo accudiva i pazzi. Chissà, forse è meglio stare di là che di qua».