Libero, 15 aprile 2019
Giorgio Michetti a 106 anni insegna come dipingere sul web
Proverò a dirvi del pittore Giorgio Michetti. Di come l’ho conosciuto in una stradina di Viareggio che ha il nome di un santo, Francesco, ma è stretta e zitta e sgombra di anime. Due passi dalla stazione dei treni, il traffico sonnolento del mare d’inverno, ogni nuovo venuto è un intruso, non è tempo di turisti. Lo studio è un negozio vista strada, senza insegne e senza abbagli, parlano i quadri ed è un sussurro bellissimo. Permesso maestro? Il maestro ha 106 anni, è seduto di spalle, gli occhiali appiccicati a due pupille vispe e scure «devo stare attento ché comincio a vedere poco». È chino al tavolo di lavoro di questo tunnel di volti e corpi che spuntano da dipinti lievi e suadenti, si capisce che è il suo terrazzo sul mondo o forse solo il modo per restarci dentro …«finisco la cornice, è questione di un attimo». Sul grande ripiano ingombro di schizzi, matite e pennelli c’è il disegno a carboncino di uomini nudi che piangono in ginocchio, si protendono verso il cielo, tirano pugni contro un muro immaginario, «la vede questa gente, è gente perduta che cerca la sua libertà… non ha freddo signorina?». Michetti porta la giacca di lana abbottonata fino al collo, un foulard gli avvolge le forme smagrite, ha dita lunghe e affusolate chissà se l’arte passa da quelle venature sottili, anche le rughe sono garbate e leggere o sono scivolate via insieme all’acrilico che cola dai barattoli. Sorride divertito del mio imbarazzo e parla con le “sss” che si attorcigliano sulle “c” al modo dei toscani. Nel suo atelier entra tutta Viareggio. Gli sconosciuti come me e gli amici cari come Walter, l’artista dalla barba bianca che fa i giocattoli in legno due civici più in là. «Tutti i quadri che vede sono miei, voglio fare una mostra appena posso, li metterò ovunque, sui muri e anche per terra, una cosa originale per la mia ultima esposizione». Cento anni che dipinge e non è ancora stanco. «Butto giù i colori e vado a cercare i quadri… mi bastano i primari (il giallo, il rosso e il blu) e il bianco naturalmente… Da dove ha detto che arriva?» Da Milano. «Ah Milano… la mia Milano, ci ho vissuto trent’anni. Sant’Ambrogio, i Navigli, l’ho dipinta tanto, abitavo in via Mossotti, c’erano pittori, scrittori». Copre un ultimo sberleffo di verde, prende fiato. «Vuol sapere come è cominciata? A sei anni facevo scarabocchi ma non avevo carta e colori e disegnavo i muri della camera dal letto con il carboncino della scaldina di mia nonna. Mio padre una sera entrò, vide questi muri imbrattati e si infuriò, ora basta! non posso chiamare sempre l’imbianchino. La mattina della befana mi fece trovare in fondo al letto la tavolozza con pennelli, matite e pastelli». Giorgio si illumina: «Tutta quella roba solo per me, la festa più bella della mia vita». IL LICEO E LA PRIMA MOSTRA Primi del Novecento, papà farmacista, sette figli, qualcuno dovrà pur seguire le sue orme. Ma il primo sceglie medicina, il secondo ingegneria. Il terzo è Giorgio, fa il ginnasio, e non ne vuole sapere di medicamenti e pozioni, «voglio fare il pittore!». Si iscrive al liceo artistico a Roma. Prima mostra a 17 anni, nella casa del fascio di Castiglioncello. «Quell’estate mio padre mi mandò là per preparare gli esami. Dipingevo pinete e paesaggi, quando mio zio li vide chiese il permesso al sindaco di farmi fare una mostra. Pirandello veniva lì a passare l’estate. Vidi entrare questo signore con la barbetta bianca contornato da tre individui, fecero il giro della sala borbottando tra loro e io tremavo come una foglia, poi Pirandello si avvicinò a mi disse: vorrei conoscere il pittore che ha fatto questi quadri. Il pittore sono io. Mi guardo in faccia serio serio, non è possibile questa è una pittura da grandi». Michetti sorride, spalanca le braccia. «Fu la più breve e importante critica della mia vita». Modesto e sincero. Crede in Dio con l’animo dei semplici e perché il padre era tanto religioso e l’ha battezzato. L’ultimo quadro non lo ricorda neanche più ma quello alle sue spalle è bellissimo. Raffigura il muro di cinta della casa di Paolina Bonaparte, soldati austriaci che giocano coi bambini venuti a salutarli, un ragazzino è seduto sul marciapiede serio serio, «quello sono io»… Scorrono i minuti e portano via i ricordi. «Quando morì mio padre dovetti lasciare l’accademia, la farmacia andava a concorso e toccava lavorare, mia madre ci portò a Peschiera del Garda. Entrai nel genio militare avevo bisogno di un impiego. Che studi hai fatto? mi chiesero. L’accademia di belle arti. Chiamarono il sergente maggiore, mi fecero riprodurre un bullone, ed ebbi il lavoro». Scoppiò la guerra. La prima era stata una pennellata di dolore. La seconda invece fu tremenda. «Mi mandarono in Abissinia e vidi morire 20 ragazzi attorno a me. Al rientro dalla guerra presi una decorazione al valore militare». È ancora lì appesa al muro, l’inchiostro sbiadito ma sprizza orgoglio e fede. Ma anche in trincea l’anima dell’artista bussa e cova. «Disegnavo tutto quello che vedevo sul quadernetto degli appunti». RICORDI DI GUERRA La domanda delle domande arriva da sola in questo pomeriggio sospeso. O forse arriva prima la risposta della domanda. «Alla morte non ho mai pensato, non ci penso neanche adesso…». I medici si sorprendono ogni volta che lo vedono, il pensiero poi che lavori ancora li sconvolge sempre. «Ho rischiato la vita tre o quattro volte sotto il fuoco nemico ma le pallottole mi vedevano e mi scansavano». Una pausa. Entra Ana, la magnifica badante. Poi l’amico Walter, tra artisti ci si intende. Un sospiro lieve di Michetti. «Ogni tanto ho tanta confusione nella testa, i ricordi si intrecciano, devi aver pazienza. Ero un bel ragazzo, uno sportivo, ho fatto il canottaggio per nove anni, ricordo che a un certo punto ebbi tre fidanzate contemporaneamente, un bel problema nei momenti di effusioni. Così proposi a tutte e tre di chiamarle Carla e loro accettarono». Le donne. Ne ha disegnate tante Michetti. Donne amate, donne sfiorate. Donne che ha perduto. Come la prima moglie Laura, morta giovane di un male incurabile, «a quel tempo non c’erano terapie e mi lasciò con tre figli». E la seconda incontrata in gioventù mentre lavorava nel genio militare e c’era bisogno di acquistare abeti a Nord di Trieste. «Era la figlia del padrone del bosco. Come si chiamava? oddio ho un vuoto eppure è stata mia moglie». Sfrucuglia i ricordi, si fa largo nella mente. Vacilla ma è un attimo. «Si chiamava Liliana, era simpatica. Non so cosa mi prese ma decisi di andare a lavorare in Eritrea e le dissi parto per l’Africa mi imbarco a Venezia, se vuoi ci salutiamo lì. Lei rispose “non mi importa, mi sposo”. Andai in Africa col cuore in pezzi e poco dopo sposai Laura». Liliana sarebbe ricomparsa più tardi. Lui era vedovo, lei girava l’Italia perché lavorava per una ditta di profumi. «Mi chiamò da Firenze, “ciao sono io” e mi parve mandata dal padre eterno». Muore anche Liliana nell’89 ed è un dolore immenso. Ma dove si trova un’ispirazione lunga 100 anni? «Io ci vivo dentro l’ispirazione. Il mio cervello si è modificato. È come se prendessi la matita e ricalcassi un disegno che ho già impresso nella mente». È un pittore quotatissimo e amatissimo. Le va di insegnarmi? dipingo anch’io per diletto. Prende il mio quaderno e fa uno scarabocchio. «Cosa ci vede lei?» e intanto fa ruotare il quaderno. Vedo una donna seduta. «Allora facciamola». Traccia i capelli e poi il volto. La mano è leggera e sicura pare un bimbo che saltella sulla via di casa. «Ecco la vede questa linea? può essere la gamba, questo invece è il braccio che si adagia sulla coscia». Era uno scarabocchio… e l’ha reso un quadro. La caricatura è ancora più semplice. Gli davano tre sigarette per ogni disegno che faceva. Schizza un naso infinito e due occhi sghembi, non sarò mica io quella? IL SEGRETO Ogni amico che viene si ferma a far due chiacchierare. E lui gioca coi pennelli, spiega la profondità e traccia volti. Forse è solo la pittura il segreto di una lunga vita e il suo nutrimento. Dice che mangia poco, ma la colazione no, quella deve essere abbondante. C’è stata anche una scuola d’arte qui, i ragazzi venivano e restavano incantati «poi tutto passa, le passioni oggi sono effimere… I giovani vengono da me e domandano Michetti ho finito gli studi e ora che faccio? Fai i bagagli e scappa da Viareggio. Ma bisogna essere determinati. Io d’altronde ho progettato la mia vita a cinque anni». Perché via da Viareggio? «Perché è un città in crisi, non c’è più niente». Indica col dito l’angolo da cui gli fanno le riprese per youtube. Non lo sa che le sue lezioni sono seguite da migliaia di follower o se lo sa fa spallucce da buon toscano. «Mi trovo in questo mondo dell’arte e credo sia tutto mio. Gli altri artisti non sanno decidersi si correggono cambiano stile scopiazzano quelli del passato. Ritraggo le cose che mi piacciono, ho dipinto il terremoto del Friuli, la gente che scappava, il terrore negli occhi, poi spaccai la tela perché il terremoto è rottura». Ho letto da qualche parte che ha incontrato Picasso. «Eravamo in Costa Azzurra ed entrammo in uno di quei castelli magnifici. Vidi Picasso che disegnava. Gli dissi in francese bonjour sono anch’io pittore. Je m’en fout (io me ne frego) rispose lui. Rimasi basito e in silenzio, poi lo salutai, au revoir, moi aussi je m’en fout (arrivederci, anch’io me ne frego)». Ma come si fa ad arrivare a 106 anni, lei l’ha capito? «Non ho fretta, non corro. E non parlo di cose tristi... sono destinato a morire qua dentro tra i miei quadri, i miei figli vivono a Milano, mi vorrebbero portare via di qua ma come faccio? Sa che le dico? Che gli amici me li creo con la pittura». È stanco, fermiamoci un attimo. Di momenti belli, dice, ne ha vissuti tanti. Come la befana dei suoi sei anni. O la mostra in Svizzera che fu la più grande della sua vita, anche i quadri, tutti venduti. Devo andare ho il treno per Milano. «Torna a trovarmi ma presto perché poi passa il mio». Mi regala un suo schizzo, una donna distesa, un uomo seduto al capezzale non si sa se pianga o vegli il suo sonno d’amore. «Scrivi scrivi: la geometria è la sintesi di tutte le forme e l’arte non è riproduzione ma invenzione». Non ho voglia di andare via e lui lo capisce. Vorrei prendermi un po’ di lui, dei suoi ricordi lenti, vorrei stringere un’altra volta quella mano forte e sentire l’amore che gli brucia l’anima da quella Befana lontana. «Non è facile procurare un’emozione quando si hanno 106 anni», mi dice sottovoce… Poi mi abbraccia e io scivolo via.