Corriere della Sera, 15 aprile 2019
Mike Lennon, rapper asiatico in Italia
«Lavolale» al posto di «lavorare». «Liso» al posto di «riso». L’«Asian rap» di Mike Lennon usa la «elle» al posto della «erre»: «Quando pensi a un asiatico pensi subito a quel modo di parlare», spiega lui, rapper e producer in erba, 23 anni, nato a Parma da genitori vietnamiti e poi trasferitosi a Milano.
Suo padre è arrivato in Italia come rifugiato politico negli anni ’60, la madre è emigrata per motivi di studio. A lui, del Vietnam, restano i frammenti di una lingua che parlava da piccolo insieme al cantonese e ricordi di un viaggio fatto da bambino: «Ho comprato una collezione di cd dei Beatles a prezzo stracciato quando ero là. Sono stati il gruppo che mi ha fatto appassionare alla musica». La seconda parte del suo nickname è così spiegata, mentre la prima abbrevia un pezzo del suo lungo nome, Duc Loc Michael Vuong.
La passione per il rap è arrivata quando andava a scuola e veniva preso in giro «per gli occhi a mandorla e il naso schiacciato»: «I bambini sono sfacciati – ricorda – e c’è stato un momento in cui mi sono sentito diverso. La rabbia l’ho sfogata nella musica. Un po’ alla volta, quelli che prima erano punti deboli sono diventati i miei punti di forza».
Nell’Ep «Asian», appena uscito in digitale, Mike Lennon si serve di tutti gli stereotipi possibili legati alla comunità asiatica in modo ironico, esasperandoli al massimo. Ma andando oltre lo strato parodistico del progetto (l’uso della «elle» al posto della «erre» compare anche in tutto quel che scrive sui social), le sue canzoni raccontano la sua storia e fanno inevitabilmente emergere la superficialità con cui gli asiatici vengono ritratti: «Si dice che lavorino sempre tanto, che tutto quel che fanno sia copiato. Io ho voluto accentuare i cliché e far capire che c’è di più, che ci possono essere idee originali e creative».
Così nella canzone «Talocco» Mike parla della contraffazione, in «Aligatò» della dedizione al lavoro, in «Settimo cielo» di una situazione famigliare (autobiografica) non proprio idilliaca: «A casa ci sono stati dei problemi e i miei genitori si sono separati. Ma poi il secondo marito di mia madre è stato fondamentale per me, mi ha spronato a non mollare con la musica e mi ha aiutato ad allestire uno studio in garage».
Tuttavia uno stereotipo fa centro: «È vero, io lavoro veramente tanto. Ho studiato design, ma poi ho iniziato a mantenermi: ho fatto contratti luce e gas, lavorato in fabbrica, in un’edicola, raccolto pomodori... Ora tutto questo inizia ad avere un senso». Mike Lennon, infatti, ha già collaborato con colleghi come Gué Pequeno ed Emis Killa e prodotto brani di Maruego. Il 25 maggio debutta live al MiAmi Festival di Milano, lo stesso giorno in cui si esibirà anche Mahmood.
La musica come esempio di multiculturalità e integrazione? «Ho visto che in Italia mancava un rapper asiatico e allora mi sono detto “perché non potrei essere io”?», ride. Ma poi serio aggiunge: «Non voglio assolutamente essere portavoce di cose di cui non sono responsabile. Vedo solo che in Italia la comunità asiatica è ancora un po’ chiusa, difficilmente si espone a livello artistico, mentre negli Stati Uniti, ad esempio, già succede. E il mio messaggio è di credere in se stessi. Ma vale per tutti, vedo anche tanti miei amici italiani che hanno difficoltà a capire cosa fare nella vita».
Lui, comunque per il suo futuro ha le idee chiare: «Mike Lennon è solo l’inizio, è un personaggio come Fantozzi per Paolo Villaggio. Una fase. Chissà che poi io non diventi un Super Sayan e non inizi a pronunciare persino le “erre”».