Non è più tanto facile, al giorno d’oggi, provare a raccontare chi è stato e cosa ha rappresentato Giuseppe Ciarrapico, il "Ciarra", che ieri è scomparso a 85 anni, lasciandosi dietro una vita intensa di complicatissime fedeltà, grossolane sottigliezze, affari a loro modo eroici, equivoci e scombinati, amicizie e inimicizie tanto varie quanto imprevedibili – a riprova, l’ennesima, di come la vita della Prima Repubblica fosse prosperata all’insegna di una complessità adesso, appunto, inconcepibile.
Un fascista andreottiano in affari con i comunisti e con i craxiani; editore dapprima della nostalgia revanchista, poi dei quotidiani della Ciociaria andreottiana, chiamato dal Divo a dirimere il negoziato per salvareRepubblica dalle grinfie di Berlusconi e divenuto – o già lo era? - amico sincero del principe Caracciolo; un finanziere spregiudicato pronto a lanciarsi sui resti spolpati dell’Ambrosiano, poi nel business delle acque minerali, quindi delle cliniche, ma anche della Casina Valadier, del Bar del Tennis, di "Berardo", che riforniva i buffet di Palazzo Chigi, e dei grandi caffè della dolcevita a piazza del Popolo...
Valla a trovare una definizione unificante per un personaggio di aspra, gioviale e perfino poetica ruvidezza. Una specie di Aldo Fabrizi di cui spesso e volentieri si spargeva voce che stavano per arrestarlo, anzi l’avevano già arrestato, e allora dagli uffici del Ciarra, davanti a villa Borghese, forse nell’edificio dove si consumò la perversa tragedia del marchese Camillino Casati, giungeva la seguente smentita, senza troppo preoccuparsi che la notizia non ci fosse: «Sono libero come una rondine!». Sorriso, sospiro, occhi al cielo, lampo di sfida, quindi di provvisoria impunità.
Teneva il revolver nel cassetto, ma a volte, a colloquio con ceffi cui però non negava udienza, lo collocava in bella vista sulla scrivania. Non era un santo: ma chi lo è? Nato nel 1934 in un paese abruzzese chiamato Bomba, figlio di un penalista, fin dall’adolescenza fascista, anzi fascistissimo; molti anni dopo "fascista storico", là dove l’astuta auto-aggettivazione avrebbe dovuto distanziarlo da quel mondo di reietti "esuli in patria", mentre lui si trovava al centro del formaggio. Più esattamente: al servizio del Divo, da lui appellato "il Principale"; ma anche di chiunque, senza pregiudizi, schematismi e tribolazioni etiche gli consentisse di fare mercato e soldi. Rispetto ai quali aveva una indubbia, anche se autolesionistica attitudine.
A lungo finanziò, anche sul piano culturale, la causa del Msi e del neofascismo italiano.
Amico fedele di Almirante e poi fedelissimo della vedova; ma sempre più che diffidente nei confronti di Fini. Nel 1954 incontrò Andreotti sulla via della Cassa per il Mezzogiorno, un centro ittico a Latina, quando Peppino gli diede per la prima volta la mano raccontò di aver avuto paura che gli puzzasse di pesce. Ma il Divo era tutt’altro che schizzinoso e specie a Roma i confini tra la Dc e i missini erano, più che labili, quasi del tutto inesistenti. Trent’anni dopo era di Ciarrapico l’aereo privato che scarrozzava il Divo su e giù per l’Italia e sempre suo il titolo di un cocktail, il "Marilena Madrigale", dedicato alla terzogenita del presidente, il cui settimo governo fu salutato sulle colline ciociare con bande di paese e porchetta flambè.
Sempre per la gloria di Andreotti, nella stagione del Caf, il Ciarra, privo di qualsiasi passione per il calcio, divenne inopinatamente presidente della Roma; così come s’inventò il Premio Fiuggi, maxi borsa per Gorbaciov, 500 milioni, brividi e interrogazioni sulla copertura dell’assegno. Per il resto: collezionò soldatini di piombo; portò cannoli siciliani al Cossiga picconatore; e proclamatosi risanatore dell’Avanti! prese a soggiornare all’hotel Raphael; ispirò anche il personaggio di Sparafico nella commedia Alle falde del Kilimangiaro di Marco Risi. Poi finì dentro, stavolta veramente. Ma ne uscì più vulcanico di prima, fino al punto da incantare Berlusconi, che lo fece senatore. Ma i tempi erano davvero e troppo cambiati.
A disagio nella Seconda Repubblica, se n’è andato nella Terza, che appare non solo più semplice, ma a volte così misera da far osservare con occhi diversi anche la figura del Ciarra.
***
Marco Ventura per Il MessaggeroSe ne va un mondo con Giuseppe Ciarrapico, il Ciarra. Il Peppino più rappresentativo di una certa Roma, il reduce della grande commedia del potere che ruotava attorno al Caf in una commistione di imprenditoria, politica e ideologie post-belliche. Campione della prima Repubblica con tante ombre giudiziarie, ma un gigante come personaggio nell’universo non solo capitolino. Vulcanico, schietto fino all’autolesionismo, fascista impenitente, andreottiano doc e ciononostante «miglior amico» dell’editore dell’Espresso, l’aristocratico di sinistra Carlo Caracciolo. Il Ciarra, re delle acque minerali nel castello di Fiuggi, di grandi cliniche (Villa Stuart e Quisisana) con Caracciolo socio di minoranza, imprenditore del catering e proprietario di locali che fanno parte dell’imprescindibile scenografia della dolce vita romana come il Bar Rosati a Piazza del Popolo o la Casina Valadier, fu anche un editore controverso e a modo suo necessario nel panorama della contrapposizione rossi-neri dopo la guerra.
Una leggenda da lui stesso alimentata vuole che avesse portato a spalla la bara del Duce, che lui chiamava il Principale. Si definiva, il Ciarra, un mussoliniano prima ancora che un fascista. Vide con anticipo la deriva berlusconiana del partito rifondato da Gianfranco Fini, AN, attraverso il suicidio perfetto del MSI di Almirante. Da deriva che nasceva dal fatto che Fini, disse, «mai era stato fascista» e adesso era «un traditore».
Lo scontro tra i due indusse Ciarrapico a una memorabile gaffe, quando suggerì a Fini (si pentì sempre d’averlo presentato all’amico Giorgio Almirante) di andare a «ordinare le kippà, perché di quello si tratta». Dovette precipitarsi a scrivere una lettera riparatoria alla comunità ebraica, concludendo però di non voler indugiare «più a lungo nel porgere le mie più sentite scuse».
Le sue decine di società spaziavano, oltre a una ventina di acque minerali, alla sanità e al catering, e ai premi letterari, all’editoria e al calcio. Eccolo, forse per obbedire a un suggerimento dell’amico divo Giulio Andreotti, acquistare la AS Roma nel 1991 e cederla nel ’93 sull’onda delle inchieste (e degli arresti) dell’era Tangentopoli. Una vita perigliosamente giunta a 85 anni, da raccontare coi suoi chiari e scuri. Geniale nell’intuire il valore dei fogli locali. Anche qui merito di Andreotti, col quale volò negli States. Invece di assorbire il jet leg, il Ciarra vagabondò all’alba per la Grande Mela, scoprì che le copie del Bronx News (stessa proprietà del Washington Post) venivano impilate una sull’altra in contenitori di plexiglas per strada e andavano a ruba, la gente del quartiere se ne sentiva parte e ci si riconosceva.
«Fu lì che capii che dovevamo realizzare giornali locali». Così nacque Ciociaria Oggi e la catena di altri fogli locali da Frosinone a Latina e al Molise. Ma come editore fece qualcosa di più. Ristampò l’Opera Omnia di Mussolini in bei volumi rilegati in similpelle rossa, operazione non solo politica (rivolta ai reietti dell’epoca, post-fascisti che avevano il culto di Mussolini), ma culturale. A cui si lega tutta una produzione di autori di testi di livello poi sdoganati da un editore prestigioso come Adelphi.
Fra gli altri Tempeste d’acciaio di Ernst Jùnger, picco della letteratura di guerra, o il Manifesto dei conservatori anarchici, l’Ideario di Prezzolini, o le Riflessioni sulla Rivoluzione francese di Edmund Burke. O la Storia e antistoria di Adriano Tilgher legato a Avanguardia Nazionale.
C’è da sorprendersi che il Ciarra si vantasse di non saper dove mettere quasi 3 metri di scrivania del Duce acquistata su e-bay per 37 milioni di lire? O andasse ai funerali del leader di Forza Nuova, Massimo Morsello? O pubblicasse i fascicoli della rivista nazista Signal? Quest’uomo era intimo di Andreotti, anzi era l’anti-Sbardella alla sua destra. E anche verso gli ebrei aveva posizioni ambigue, avendo pubblicato Theodor Herlz e Martin Bubber, e soprattutto essendo amico di Giulio Caradonna, figlio dell’unico gerarca fascista che si oppose alla vergogna delle leggi razziali. Certo, alla nascita di Alleanza nazionale prefigurò una notte dei lunghi temperini. Ma scelse Gorbaciov tra i premiati di Fiuggi, e per poco non ebbe Ingrao. L’uomo si prestava allo spettacolo. Ispirò il personaggio di Sparafico in Nel continente nero, cantò Nel sole con Al Bano e inventò cocktail per la figlia di Andreotti.
Durante la guerra del Golfo prestò a Bruno Vespa l’aereo per andare a intervistare Saddam Hussein a Baghdad. E finì più volte arrestato, per finanziamento illegale dei partiti e bancarotta. Descritto come «gran prezzemolo degli accadimenti finanziari più misteriosi», dal caso Calvi al Banco di Roma, fu però lui a mettere d’accordo gli eterni nemici dell’editoria italiana sul lodo Mondadori. «Venne Passera con un camion di documenti, gli dissi che m’ero portato dietro solo un quaderno a quadretti e avrei usato una sola pagina, su cui avrei tracciato una linea verticale». Da un lato quello che chiedeva Berlusconi, dall’altro quello che chiedeva De Benedetti. E alla fine trovò la quadra. Non ebbe il tempo di curare abbastanza la Roma, che con lui raggiunse i quarti nella Uefa e ebbe come allenatori Ottavio Bianchi e Vujadin Boskov. Che il 28 marzo 1993 fece esordire in serie A il promettente 16enne Francesco Totti. Nonostante tutte le vicissitudini, resterà un vuoto. Con Ciarrapico se ne va un mondo, che non tornerà più.
***
Sergio Bocconi per il Corriere della Sera
Lui stesso ha ricordato così le ore all’hotel Palace di Milano, passate alla «storia» come la «sera del Ciarra». «Ah, che sera, quella sera. Le trasmissioni vennero sospese e a reti unificate alle 23 e 20 io lessi il comunicato dell’accordo, con a destra Gianni Letta e Fedele Confalonieri, a sinistra Carlo Caracciolo e l’avvocato Ripa di Meana che rappresentava De Benedetti». È il 29 aprile 1991 quando, sotto la «stella» di Giuseppe Ciarrapico, fedelissimo di Giulio Andreotti, l’Ingegnere e Silvio Berlusconi raggiungono l’accordo che dopo 500 giorni mette fine alla guerra di Segrate, con la spartizione della Mondadori. A De Benedetti restano Repubblica, Espresso e i quotidiani locali della Finegil, a Berlusconi libri e periodici tra cui Panorama. La vicenda, iniziata nel 1989 e arrivata a quella mediazione dopo che la magistratura romana ha annullato il lodo arbitrale che aveva dato ragione a Cir, ha poi vissuto tante altre puntate. In sede penale, per la corruzione di Vittorio Metta, giudice del tribunale che aveva ribaltato l’esito del lodo, e in sede civile, dove la Cassazione nel 2013 ha condannato Fininvest a versare 500 milioni a Cir. Ciarrapico, qualche anno dopo la notte che gli ha dato la maggiore fama dopo quella legata ad acquisto e presidenza della Roma, ha raccontato che «ci avevano provato in tanti a metterli d’accordo. Perfino Enrico Cuccia. Nulla». Nel febbraio-marzo 1991 era andato a colazione «dall’amico Caracciolo»: «Lì trovai alcuni uomini di De Benedetti: Corrado Passera e Ripa di Meana. Dibattevano della Mondadori. Gli dissi: “A me pare che state a fare la guerra della Secchia rapita. Eppure non mi sembra così difficile trovare la quadra”». Poche ore dopo la chiamata di De Benedetti. «Mi chiede: “Perché non ci provi tu?”». Andreotti l’avrebbe sconsigliato: «Mi ricordo le sue parole: “Nun t’impiccià che te fai male”». E Bettino Craxi gli diceva: «Teniamo duro perché ci mollano Repubblica. Io gli rispondevo: questi non mollano». Fatti e personaggi della Prima Repubblica, dove nulla restava fuori dalla porta dei partiti-padroni. E il Ciarra, «re delle acque minerali», editore, patron di cliniche e della Roma, è stato uno degli interpreti più «colorati». E significativi.
Marco Ventura per Il MessaggeroSe ne va un mondo con Giuseppe Ciarrapico, il Ciarra. Il Peppino più rappresentativo di una certa Roma, il reduce della grande commedia del potere che ruotava attorno al Caf in una commistione di imprenditoria, politica e ideologie post-belliche. Campione della prima Repubblica con tante ombre giudiziarie, ma un gigante come personaggio nell’universo non solo capitolino. Vulcanico, schietto fino all’autolesionismo, fascista impenitente, andreottiano doc e ciononostante «miglior amico» dell’editore dell’Espresso, l’aristocratico di sinistra Carlo Caracciolo. Il Ciarra, re delle acque minerali nel castello di Fiuggi, di grandi cliniche (Villa Stuart e Quisisana) con Caracciolo socio di minoranza, imprenditore del catering e proprietario di locali che fanno parte dell’imprescindibile scenografia della dolce vita romana come il Bar Rosati a Piazza del Popolo o la Casina Valadier, fu anche un editore controverso e a modo suo necessario nel panorama della contrapposizione rossi-neri dopo la guerra.
Una leggenda da lui stesso alimentata vuole che avesse portato a spalla la bara del Duce, che lui chiamava il Principale. Si definiva, il Ciarra, un mussoliniano prima ancora che un fascista. Vide con anticipo la deriva berlusconiana del partito rifondato da Gianfranco Fini, AN, attraverso il suicidio perfetto del MSI di Almirante. Da deriva che nasceva dal fatto che Fini, disse, «mai era stato fascista» e adesso era «un traditore».
Lo scontro tra i due indusse Ciarrapico a una memorabile gaffe, quando suggerì a Fini (si pentì sempre d’averlo presentato all’amico Giorgio Almirante) di andare a «ordinare le kippà, perché di quello si tratta». Dovette precipitarsi a scrivere una lettera riparatoria alla comunità ebraica, concludendo però di non voler indugiare «più a lungo nel porgere le mie più sentite scuse».
Le sue decine di società spaziavano, oltre a una ventina di acque minerali, alla sanità e al catering, e ai premi letterari, all’editoria e al calcio. Eccolo, forse per obbedire a un suggerimento dell’amico divo Giulio Andreotti, acquistare la AS Roma nel 1991 e cederla nel ’93 sull’onda delle inchieste (e degli arresti) dell’era Tangentopoli. Una vita perigliosamente giunta a 85 anni, da raccontare coi suoi chiari e scuri. Geniale nell’intuire il valore dei fogli locali. Anche qui merito di Andreotti, col quale volò negli States. Invece di assorbire il jet leg, il Ciarra vagabondò all’alba per la Grande Mela, scoprì che le copie del Bronx News (stessa proprietà del Washington Post) venivano impilate una sull’altra in contenitori di plexiglas per strada e andavano a ruba, la gente del quartiere se ne sentiva parte e ci si riconosceva.
«Fu lì che capii che dovevamo realizzare giornali locali». Così nacque Ciociaria Oggi e la catena di altri fogli locali da Frosinone a Latina e al Molise. Ma come editore fece qualcosa di più. Ristampò l’Opera Omnia di Mussolini in bei volumi rilegati in similpelle rossa, operazione non solo politica (rivolta ai reietti dell’epoca, post-fascisti che avevano il culto di Mussolini), ma culturale. A cui si lega tutta una produzione di autori di testi di livello poi sdoganati da un editore prestigioso come Adelphi.
Fra gli altri Tempeste d’acciaio di Ernst Jùnger, picco della letteratura di guerra, o il Manifesto dei conservatori anarchici, l’Ideario di Prezzolini, o le Riflessioni sulla Rivoluzione francese di Edmund Burke. O la Storia e antistoria di Adriano Tilgher legato a Avanguardia Nazionale.
C’è da sorprendersi che il Ciarra si vantasse di non saper dove mettere quasi 3 metri di scrivania del Duce acquistata su e-bay per 37 milioni di lire? O andasse ai funerali del leader di Forza Nuova, Massimo Morsello? O pubblicasse i fascicoli della rivista nazista Signal? Quest’uomo era intimo di Andreotti, anzi era l’anti-Sbardella alla sua destra. E anche verso gli ebrei aveva posizioni ambigue, avendo pubblicato Theodor Herlz e Martin Bubber, e soprattutto essendo amico di Giulio Caradonna, figlio dell’unico gerarca fascista che si oppose alla vergogna delle leggi razziali. Certo, alla nascita di Alleanza nazionale prefigurò una notte dei lunghi temperini. Ma scelse Gorbaciov tra i premiati di Fiuggi, e per poco non ebbe Ingrao. L’uomo si prestava allo spettacolo. Ispirò il personaggio di Sparafico in Nel continente nero, cantò Nel sole con Al Bano e inventò cocktail per la figlia di Andreotti.
Durante la guerra del Golfo prestò a Bruno Vespa l’aereo per andare a intervistare Saddam Hussein a Baghdad. E finì più volte arrestato, per finanziamento illegale dei partiti e bancarotta. Descritto come «gran prezzemolo degli accadimenti finanziari più misteriosi», dal caso Calvi al Banco di Roma, fu però lui a mettere d’accordo gli eterni nemici dell’editoria italiana sul lodo Mondadori. «Venne Passera con un camion di documenti, gli dissi che m’ero portato dietro solo un quaderno a quadretti e avrei usato una sola pagina, su cui avrei tracciato una linea verticale». Da un lato quello che chiedeva Berlusconi, dall’altro quello che chiedeva De Benedetti. E alla fine trovò la quadra. Non ebbe il tempo di curare abbastanza la Roma, che con lui raggiunse i quarti nella Uefa e ebbe come allenatori Ottavio Bianchi e Vujadin Boskov. Che il 28 marzo 1993 fece esordire in serie A il promettente 16enne Francesco Totti. Nonostante tutte le vicissitudini, resterà un vuoto. Con Ciarrapico se ne va un mondo, che non tornerà più.
***
Sergio Bocconi per il Corriere della Sera
Lui stesso ha ricordato così le ore all’hotel Palace di Milano, passate alla «storia» come la «sera del Ciarra». «Ah, che sera, quella sera. Le trasmissioni vennero sospese e a reti unificate alle 23 e 20 io lessi il comunicato dell’accordo, con a destra Gianni Letta e Fedele Confalonieri, a sinistra Carlo Caracciolo e l’avvocato Ripa di Meana che rappresentava De Benedetti». È il 29 aprile 1991 quando, sotto la «stella» di Giuseppe Ciarrapico, fedelissimo di Giulio Andreotti, l’Ingegnere e Silvio Berlusconi raggiungono l’accordo che dopo 500 giorni mette fine alla guerra di Segrate, con la spartizione della Mondadori. A De Benedetti restano Repubblica, Espresso e i quotidiani locali della Finegil, a Berlusconi libri e periodici tra cui Panorama. La vicenda, iniziata nel 1989 e arrivata a quella mediazione dopo che la magistratura romana ha annullato il lodo arbitrale che aveva dato ragione a Cir, ha poi vissuto tante altre puntate. In sede penale, per la corruzione di Vittorio Metta, giudice del tribunale che aveva ribaltato l’esito del lodo, e in sede civile, dove la Cassazione nel 2013 ha condannato Fininvest a versare 500 milioni a Cir. Ciarrapico, qualche anno dopo la notte che gli ha dato la maggiore fama dopo quella legata ad acquisto e presidenza della Roma, ha raccontato che «ci avevano provato in tanti a metterli d’accordo. Perfino Enrico Cuccia. Nulla». Nel febbraio-marzo 1991 era andato a colazione «dall’amico Caracciolo»: «Lì trovai alcuni uomini di De Benedetti: Corrado Passera e Ripa di Meana. Dibattevano della Mondadori. Gli dissi: “A me pare che state a fare la guerra della Secchia rapita. Eppure non mi sembra così difficile trovare la quadra”». Poche ore dopo la chiamata di De Benedetti. «Mi chiede: “Perché non ci provi tu?”». Andreotti l’avrebbe sconsigliato: «Mi ricordo le sue parole: “Nun t’impiccià che te fai male”». E Bettino Craxi gli diceva: «Teniamo duro perché ci mollano Repubblica. Io gli rispondevo: questi non mollano». Fatti e personaggi della Prima Repubblica, dove nulla restava fuori dalla porta dei partiti-padroni. E il Ciarra, «re delle acque minerali», editore, patron di cliniche e della Roma, è stato uno degli interpreti più «colorati». E significativi.