Corriere della Sera, 9 aprile 2019
Le confessioni di Claudio Magris
«Il rapporto con i maestri per me è la libertà di riconoscere autonomamente un’autorità senza esserne intimiditi, la verità sta sempre nella discussione». Claudio Magris domani compie 80 anni. E da oggi è in edicola Danubio, il volume che inaugura la nuova collana del «Corriere della Sera» dedicata proprio allo scrittore triestino. «Al liceo ho imparato a ridere e a inventare storie».
Domani Claudio Magris compie 80 anni, anche se da piccolo pregò suo padre di poter festeggiare il 9 aprile. «Lui mi rispose: se proprio vuoi, ma posso sapere perché? E io: perché il 9 aprile 1863, ad Appomattox, in Virginia, Abramo Lincoln ha dichiarato liberi gli schiavi neri. Sembravo Enjolras, disse poi, quando, nei Miserabili, proclama: cittadino, mia madre è la Repubblica!».
Sorride Magris seduto su una poltrona nel suo studio di Trieste. Intorno libri, quadri, un crocifisso in legno di ulivo di Mauro Corona («è un bravissimo scultore»), il manifesto di un omaggio spagnolo a Marisa Madieri, la prima moglie molto amata, fine scrittrice scomparsa nel 1996, ritratta da Franco Giraldi. L’ironia, anche su sé stesso, viene subito incontro parlando con questo grande scrittore vitale e appassionato, germanista, viaggiatore irrequieto con il baricentro nella sua Trieste che esibisce con orgoglio («Che cielo oggi, che mare»). A ridere anche di ciò che si ama e si rispetta glielo hanno insegnato gli anni del liceo, le grandi amicizie, le avventure, gli scherzi che si accompagnavano allo studio: «C’era una solidarietà gioiosa, il senso di inventare la vita, di iniziare a raccontare storie. Se io non avessi studiato, se fossi stato offensivo, bullo, i miei genitori sarebbero stati durissimi, però a questo gioco partecipavano. Tornavo a casa e mi chiedevano: che cosa avete fatto a scuola? intendendo non che cosa avevamo studiato ma che cosa ci eravamo inventati».
Un rapporto intimo con la città ha fatalmente qualche piccola controindicazione per uno scrittore molto conosciuto e richiesto. «In estate vado al mare anche tardi. Una sera si avvicina una signora: posso leggerle una poesia? E attacca con un componimento ottocentesco. Cominciava a fare fresco. Azzardo: scusi signora vorrei fare il bagno. Mentre scendo dalla scaletta, mi punta il dito: Mi farebbe una prefazione? Per fortuna lì l’acqua è subito molto profonda. “No” ho risposto tuffandomi e riemergendo nel buio, dall’altra parte».
Qui siamo circondati da libri. C’è anche il primo amore letterario?
«Sì, I misteri della giungla nera. Credo di avere 60-70 volumi di Salgari. È stato il battesimo. Ha cominciato a leggermelo mia zia Maria, prima che io andassi a scuola e l’ho finito poi da solo. È stato come un prolungato racconto orale. Ancora adesso penso che le storie non le inventi l’uno o l’altro, ma siano nell’aria, come le foglie. Ho trasmesso la passione ai miei figli, Francesco e Paolo, con cui facevamo gare di memoria su Salgari. Paolo quando aveva finito un libro, per qualche tempo non voleva più leggere niente per il timore che qualcosa potesse piacergli di più, ma presto è andato oltre quella fedeltà».
Lei è un viaggiatore, però i due poli della sua vita sono stati Trieste e Torino.
«Ho avuto una grande fortuna: non ho sentito nella giovinezza il senso, che a Trieste doveva essere molto pesante, della città che declinava, da cui molti andavano via, e infatti la generazione dei triestini più vecchi di me di qualche anno, come Tullio Kezich, Giorgio Vidusso, Glauco Arneri, Franco Giraldi, non ha mai perdonato alla città di doverla abbandonare. Torino era vitale, un mercato dell’immigrazione, cambiava continuamente, mentre Trieste in quegli anni era chiusa, l’ho scoperta intellettualmente da Torino. Avevo letto prestissimo Tolstoj o Dostoevskij, ma ho scoperto Svevo e gli scrittori mitteleuropei a vent’anni, Saba ancora dopo, perché prima avevo quasi una diffidenza, stupida ma anche motivata, verso la città. Torino era vivace, pulsante, era stata la capitale d’Italia, la città dove era nato tutto. Trieste aveva il vantaggio di una libertà gipsy, il non dover stare al passo con i tempi, ma se esageri resti davvero indietro. Ricordo che appena arrivato al Collegio universitario mi ero già trovato un caffè vicino piazza Vittorio dove andavamo a studiare tra una lezione e l’altra. Alla fine della prima settimana dal mio arrivo – io non c’ero quel giorno – ci fu un tremendo delitto, un certo Lo Manto caduto nella mafia edilizia: gli avevano dato un ultimo, terribile appuntamento al caffè, lui era arrivato con un’arma nascosta in un giornale, lo aspettavano in quattro, la tirò fuori e li ammazzò tutti e quattro».
All’università è stato allievo di Giovanni Getto che era stato suo commissario d’esame alla maturità a Trieste e la spronò ad andare a Torino.
«Non posso immaginare che cosa sarebbe successo se non lo avessi incontrato. Mi ha insegnato un mestiere, sono uscito dall’università come un garzone che ha imparato dal sarto a fare la manica, a stringere qua, ad allargare là. È stato anche un rapporto molto affettuoso. Getto era un uomo con una vita personale infelice, gli ultimi suoi anni sono stati tristissimi. Era infelice per molte ragioni ed era un eccellente professore anche per questo: dedicava tanto allo studio, non aveva altro. Organizzava dei seminari notturni, una volta alla settimana si apriva il palazzo Campana e così ho conosciuto Giorgio Bàrberi Squarotti, Lorenzo Mondo, Stefano Jacomuzzi, scrittore finissimo, altro amico fondamentale. Si facevano domande, si presentava qualche lavoretto. Vedevamo nascere i loro libri. È stato importante, come lo è stato leggere tutta la mia tesi, poi diventata Il mito absburgico, a Massimo Salvadori in un giorno, dopo che, due anni prima, lui aveva letto a me la sua, Il mito del buon governo. Fondamentali sono stati e sono ancora Guido Davico Bonino, Gianluigi Beccaria e Gianfranco Torcellan, morto giovanissimo, e altri e altre. Le amicizie femminili sono state e sono essenziali nella mia vita, e sempre durature».
Un altro maestro è stato Leonello Vincenti, germanista, con cui si è laureato.
«Un grande studioso. Quando, dopo essermi laureato, sono andato in Germania ed è arrivata la notizia che Einaudi avrebbe pubblicato Il mito absburgico, naturalmente è stato un grande momento. Ne ero contento ma anche spaventato ed è stato Davico Bonino, che da poco lavorava all’Einaudi, a strapparmi quasi di mano il manoscritto. Vincenti mi scrisse una lettera in cui diceva: è una grande fortuna per un giovane e io ne sono molto lieto e sono sicuro di conoscerla abbastanza per credere che lei non ne trarrà conclusioni affrettate».
Lei che maestro è stato?
«Il rapporto con i maestri per me è la libertà di riconoscere autonomamente un’autorità senza esserne intimiditi, la verità sta sempre nella discussione. Non ha nessuna importanza chi poi nell’enciclopedia ha cento righe e chi due o nessuna. Per questo, per esempio, a Singer, che ho amato moltissimo e che era un genio, ho potuto dire che i romanzi non erano all’altezza dei suoi racconti. Questo è successo al rovescio, anche con gli studenti. Mi sono sempre posto come qualcuno che ha più esperienza e quindi alcune cose le sa meglio, ma non ho mai pensato di essere più o meno di loro. Infatti con molti di essi, di Torino e di Trieste, sono anche adesso in un rapporto intenso».
Il passato lega i racconti del suo nuovo libro, «Tempo curvo a Krems» (edito da Garzanti).
«Credo, come Biagio Marin, che ci sia un non passare in certe cose: le persone amate, i valori. “Tutto sta eterno dinanzi al volto di Dio, amalo in me, per questo istante” dice Suleika al suo amante in una bellissima poesia di Goethe. Però adesso credo di avere un rapporto diverso con il tempo. Anni fa, a Trieste, andai a sentire Ungaretti, già molto vecchio. Parlò del “deserto di chi sopravvive”. Ho avuto perdite di amiche e amici che hanno reso più povero il mio presente. Io con Stefano Jacomuzzi rido ancora per quando andammo a presentare il mio libro al casinò di Sanremo, però lui non c’è, non è qui. In questo non sento un’opera metafisicamente distruttiva del tempo, sento proprio qualcosa che rende più vuota la vita concreta».
Che cosa le fa paura?
«Ho il senso, e forse anche la paura, di perdere molte cose. Anche il mare, perché è privo di qualcuno che dovrebbe esserci e che lo renderebbe diverso. Ora, soprattutto grazie a Francesco e Paolo e ad alcuni amici e amiche, di paure ne ho molte meno. C’è un contrasto tra il desiderio di viaggi, di incontri e il desiderio di sparire. È curioso perché è contrario al mio carattere, io credo fortemente nel dialogo e non nel monologo in cui si stroliga, come diceva in triestino Tito Perlini, altra bella testa. Ma la vita è grande e non è mai troppo tardi. Non avrei mai creduto, dopo la morte di Marisa, che avrei potuto amare ancora, ma quando ho reincontrato Jole, che avevo conosciuto nell’adolescenza, è successo».
Teme la morte?
«In questo momento no, anche se so benissimo che diventa sempre più probabile. Naturalmente non posso sapere come sarei, come sarò, in quel momento. È come in quel mirabile racconto di Kipling, I figli dello zodiaco, dove un uomo perde la donna amata e poi grida: voglio morire anch’io. È assolutamente sincero, lo vuole, ma quando sente la freccia che arriva dice: no, ancora un minuto. C’è un alternarsi di bisogno di essenziale, di ombra, e di piglio sempre più duro, invece, nel fare le cose che si devono fare. Una continua sollecitazione a scrivere, presentare, andare in giro. Lo faccio, come tanti, ma è faticoso, è come essere a un cocktail in cui hai il bicchiere in una mano, il piattino nell’altra e qualcuno che ti saluta. La vecchiaia è un avanzare per indietreggiare, Svevo lo aveva capito».
Nei personaggi dei racconti c’è qualcosa di lei, qualcosa di personaggi conosciuti, Giorgio Voghera per esempio...
«È quasi sempre così: prendi la barba di qualcuno per metterla sulla faccia di un altro. La letteratura è trovare o inventare? Invenio ha a che fare con l’invenzione ma anche con il trovare. Incontri due o tre persone e se sei Tolstoj ne fai una Natasha. Turgenev diceva che se non avesse conosciuto, in un luogo di villeggiatura, un certo medico non avrebbe potuto inventare Bazarov, che non è quel signore anche se ne avrà i gesti, il modo di guardare o di parlare».
Tolstoj è uno degli scrittori più amati.
«I due poli sono Tolstoj e Kafka: l’uno è la vita nella sua grandezza, l’altro è l’esperienza del disagio, del negativo non integrato. Nel mezzo però c’è tutto e per fortuna con la letteratura è lecito essere poligamici. Ci sono libri che ti arricchiscono l’informazione, altri che ti danno una preparazione intellettuale. E poi i libri della vita. Saba diceva che quello che conta è l’oro: c’è chi ne ha un chilo e chi un grammo, ma è l’oro che conta».
La collana dei suoi libri per il «Corriere» comincia da «Danubio».
«È l’ultimo libro innocente. Se si vede il materiale che c’è in cantina, il cosiddetto avantesto – le sottocoppe dei boccali di birra, le fotografie che ho scattato, tutta una serie di documentazione, scritte sui muri, carte che ho trovato in una soffitta di un mugnaio a Ulm – si capisce che l’ho fatto con molto scrupolo. Però senza rendermi conto della pericolosità della scrittura, senza domandarmi se sarebbe riuscito bene o male, diciamo come il “Perdigiorno” di Eichendorff che va in giro così senza sapere dove va. Insomma l’ho fatto con felicità».
E i romanzi?
«Sono nati con molta attenzione, con un grande lavoro, ma non sono innocenti. Invece vagabondare e poi scrivere Danubio è stato un poco un andare in giro come i cani nel film di Tati Mon oncle. Nei romanzi ci sono le “verità detestabili” della scrittura, come dice Ernesto Sabato di cui sono stato amico; il “cuore freddo” che Milosz, grande poeta, vedeva nei poeti che spesso se scrivono delle sofferenze di un bambino si commuovono più per i loro versi che per quelle sofferenze. Le mie verità detestabili si trovano credo ne La Mostra, un testo teatrale al limite della dissoluzione linguistica, messo splendidamente in scena da Antonio Calenda con uno straordinario Roberto Herlitzka, che è piaciuto molto al carissimo e grande Daniele Del Giudice».
La documentazione, anche nei romanzi, per lei è fondamentale.
«Sì, ho molto rispetto per la realtà, per la vita che, come diceva Mark Twain, è sempre più fantastica della finzione. Ad esempio quando ho cominciato a scrivere Non luogo a procedere avevo un’idea assai vaga, poi ho fatto un lavoro enorme: la Martinica, i testi creoli, il dizionario. L’idea c’era già, ma il personaggio che sento di più, Luisa, è nato strada facendo».
Scrivere la fa stare bene?
«Sì, però mi dà anche ansia. Un libro costruisce sé stesso aprendosi la strada e questa è una fase faticosa ma bellissima. Anche quando comincio a scrivere, magari in modo selvaggio: è come una storia passionale. All’opposto la fase più brutta è quando desideri di avere già scritto. È come quando, fatte le debite proporzioni, pensi: come sarebbe bello essere piantati, viltà universale ma sopratutto maschile».
Amare è sinonimo di essere, ha scritto.
«È quasi identico al senso del non tempo. Per me è impensabile un amore senza il mare. Il mare, so benissimo che anche esso non è eterno, però il “non tempo del mare” – come si intitola l’antologia di Biagio Marin che ho fatto tanti anni fa con Pier Paolo Pasolini e Guido Davico Bonino – dà l’idea dell’essere. Quando sono al mare non voglio niente, voglio solo essere lì. Ha il senso dell’infinito presente e l’amore nei momenti forti è questo: un infinito presente».