La Lettura, 14 aprile 2019
Siena, la Lehman Brothers del nostro basket
«Nella piazza del Campo ci nasce la verbena...». Accadeva ogni domenica, poco prima della palla a due. Il pubblico del Pala Mens Sana si alzava in piedi e intonava l’inno cittadino con la mano sul cuore. Come fosse Mameli, come fosse una piccola patria, quello che Siena in effetti è sempre stata, forse continua ancora ad essere. Era bello assistere a quella esibizione di orgoglio, anche da estranei. Perché in fondo celebrava un piccolo miracolo italiano.
L’eccellenza nel basket di una città che per quanto bella e famosa contava pur sempre solo su appena cinquantamila abitanti, e sfidava a viso aperto nell’Eurolega le corazzate di Mosca, Madrid, Atene, rendeva quasi impossibile il tifo contro, specialità tutta nostrana. Magari non erano simpatici, perché vincevano sempre, ma a loro si doveva il rispetto per le cose fatte davvero bene. Forse è stato questo il problema. Forse è stata la consueta deferenza verso i vincitori, di qualunque ordine e grado. Tutti o quasi tutti sapevano, nessuno ha fatto nulla. La fine della Mens Sana, la gloriosa società di basket, è una conseguenza del crollo del Monte dei Paschi, che ha cambiato la vita di una città, e purtroppo anche quella di tanti risparmiatori. La vicenda di Siena e del suo basket hanno sempre avuto un significato che andava ben oltre il territorio che l’esprimeva. Vizi e virtù, debolezze e omissioni, che purtroppo appartengono al nostro carattere nazionale.
«Quando si parla di Siena, non solo con i senesi e non solo del Palio, c’è la diffusa (e fondata) convinzione che chi non è nato dentro le mura non possa capire le dinamiche della città... non son cose che riguardino i forestieri». Flavio Tranquillo si è trovato davanti alla stessa obiezione a cui dovevano rispondere i cronisti che nei giorni del crollo affollavano i Banchi di Sopra e anche quelli di Sotto, le due principali arterie del centro. Ha continuato a camminare. A leggere gli atti giudiziari. A farsi delle domande, mettendo la realtà locale in una prospettiva più ampia. E alla fine della strada, ha scritto questo Time Out, che è anche il nome dell’inchiesta penale, e ha un sottotitolo ancora più eloquente, «Ascesa e caduta della Mens Sana o dello sport professionistico in Italia».
Ci sono molti personaggi noti. Giuseppe Mussari, l’avvocato divenuto dominus della terza banca italiana, attualmente sotto processo per le sue spericolate operazioni finanziarie. Il povero David Rossi, sulla cui morte ancora pesano dubbi e ricostruzioni alternative. E poi un’entità quasi reale come il groviglio armonioso, quell’insieme di interessi spesso oscuri, di poteri dai confini incerti che avvolgeva Siena, una definizione creata da uno dei suoi massimi artefici, l’ex direttore del giornale locale Stefano Bisi, poi assurto ai vertici della massoneria italiana. Ma il libro è dominato da una figura ancora poco conosciuta, quasi laterale in quello scandalo. L’uomo che per desiderio di troppa forza o per troppo amore ha cancellato una realtà secolare come il basket senese si chiama Ferdinando Minucci. Dagli atti, dalla parole dell’autore e anche dalle sue, emerge una figura quasi tragica, che per ambizione e spirito di rivalsa diventa protagonista di una specie di Lehman Brothers del basket, e finisce per contribuire alla fine di una creatura che senz’altro ha molto amato. Minucci e Mussari, destini comuni ognuno nel rispettivo campo di competenza, erano entrambi inseriti in un ambiente, sportivo e bancario, che tollerava compiaciuto comportamenti al limite della legalità, all’insegna del classico «così fan tutti», per poi voltare le spalle nel momento della rovina, senza porsi alcuna domanda, in perfetto equilibrio tra coscienza sporca e ottusità.
Flavio Tranquillo è da anni la voce più riconoscibile del basket televisivo. All’amore per il Gioco, inutile specificare quale, unisce una notevole passione civile, qui declinata senza dimenticare mai che è di persone che si parla, non di attori o semplici nomi. Solo uomini, che sbagliano, ma pur sempre tali. Pari dignità. Per tutti. Buoni e cattivi, dipende dallo sguardo che si posa su di loro. L’autore racconta, fatti e atti giudiziari. E lascia ampio spazio alla voce proprio di Minucci, che così assume una forza propria, diventa a sua volta j’accuse, chiamata di correo a un intero sistema, con parole che non a caso richiamano il famoso discorso in parlamento di Bettino Craxi.
«È stato semplice rendersi conto che le energie che avevamo erano assolutamente insufficienti per contrastare finanziariamente i colossi dell’epoca. Era indispensabile costruire un progetto basato sul grande amore della città per la pallacanestro e sul sostegno di un soggetto che avesse la forza per supportarlo. Il Monte dei Paschi era l’unico interlocutore credibile, e coinvolgerlo sembrava così semplice e lineare da apparire banale». Minucci racconta di aver provato a resistere alla tentazione, contando solo su incassi al botteghino e introiti pubblicitari. Poi, «dopo oltre 15 anni di assoluto rispetto delle regole», stringe il patto con un Diavolo chiamato Mps e vive per un decennio come un Faust cestistico, al di sopra delle umane possibilità, crogiolandosi nel mecenatismo altrui. A ogni vittoria di Siena va in scena la sfinente dicotomia. «Vincono grazie ai soldi e al potere di Mps» contro «Vinciamo perché siamo meglio degli altri».
Flavio Tranquillo ha l’onestà di riconoscere che c’era un fondo di verità in entrambe le tesi. Ma il crollo di Mps rivelerà anche come il piccolo miracolo senese nascondesse fondali di cartapesta. Bilanci aggiustati, la pratica diffusa dei pagamenti in nero ad allenatore e giocatori. Peccati veniali, rispetto al patto faustiano, alla creazione di una dipendenza dalla quale non era possibile tornare indietro, pena il fallimento, come poi è stato. Ma sono quelli che hanno perduto il Lehman venuto da Chiusdino, piccolo paese sui colli senesi. Il marchio di Caino dell’arresto e degli avvisi di garanzia, di un processo ancora in corso, è bene ripeterlo, lo hanno consegnato al ruolo della mela marcia, del reietto. Ma prima, anche un attimo prima che tutto venisse giù, Minucci era il campione del sistema, temuto dai colleghi, riverito dai politici e dai sindaci di Siena, che fingevano di non vedere, votato per acclamazione presidente della Lega basket da colleghi che fingevano di n0n sapere. «Se abbiamo eletto l’indagato Berlusconi per 20 anni, non si vede perché non si possa eleggere anche Minucci…», disse uno di loro. E infine, osannato da tutti i media, perché chi vince ha sempre ragione, anche se in fondo sappiamo bene che non è mai così.
«A Siena e fuori, abbiamo concorso in molti a un dissesto di proporzioni tanto spettacolari quanto i risultati sul campo della squadra toscana. Era giunta l’ora di mettere fine a un comportamento omertoso». Le pagine più appassionanti di questo romanzo italiano sono proprio quelle che descrivono un meccanismo di implicita connivenza piuttosto diffuso, e Tranquillo non fa sconti neppure a sé stesso. Da questo atteggiamento iniziale derivano, quasi a catena, il finto stupore al momento della caduta, la rapida esecrazione del reprobo, e l’ancora più veloce rimozione dell’accaduto. Gli ultimi capitoli parlano proprio di questo. Al disastrato basket italiano, con squadre che non sanno se finiranno il campionato e altre che non inizieranno il prossimo, non è servita neppure la lezione di Siena. Cambiare tutto, per non cambiare nulla, pur di salvaguardare un sistema che non funziona. E poi dicono che si tratta solo di sport.