La Lettura, 14 aprile 2019
Intervista alla scrittrice coreana Jeong You-jeong
Un io dentro l’altro. Un io che dice: «Sono l’investigatore che interroga il criminale. Ma le due figure coincidono con la stessa persona». Un io che, di sé, teme il peggio: «Tutti gli indizi puntano su un unico sospetto. L’intruso, l’assassino, sono io». Jeong You-jeong è tra le autrici di successo della Corea del Sud. Merito anche del suo Yu-jin, il protagonista de Le origini del male (Feltrinelli), nei cui meandri mentali la scrittrice penetra rivelandone la natura. Un delitto efferato man mano sempre meno inspiegabile, l’ombra opprimente di una madre e di una zia psichiatra, confuse memorie d’infanzia e, soprattutto, un fratellastro che si è sostituito al fratello morto, tutto congiura perché il lettore sia portato a condividere i monologhi di un ventiseienne che cerca una specie di verità e si ritrova nel male. Cinematograficamente, una lunga soggettiva.
Il romanzo sembra parlare, ancora prima che del male, della famiglia. E la famiglia è un aspetto fondamentale della cultura confuciana che permea la società coreana. «Le origini del male» critica quei valori?
«Lo decideranno i lettori. E sono in parecchi a pensare che il libro parli della famiglia. Dal mio punto di vista no. Le origini del male indaga che cosa voglia dire essere umani, le nostre tendenze più oscure. Il romanzo parla sia di un giovane apparentemente normale che scivola nel male interiore sia dei suoi sforzi per razionalizzare questa deriva. Tutto parte dalla famiglia perché il protagonista viene da lì. Se avessi narrato atti compiuti da un uomo con una propensione al male ormai compiuta, allora la storia non sarebbe cominciata dalla sua famiglia».
Ma c’è qualcosa della sua esperienza familiare in questa storia?
«È difficile separare le esperienze personali dalla scrittura. Quel che un autore crede si riflette nel suo atto creativo, perché uno scrittore è un cantastorie che svela la propria visione del mondo, dell’umanità, della vita. Yu-jin è il mio modo per esplorare i pensieri più profondi di qualcuno che io considero malvagio, i suoi desideri nascosti, la sua psicologia, quel che ci sta sotto...».
In «Le origini del male» prevalgono le donne: la madre, la zia. Plasmano esistenze, fanno scelte decisive per la vita altrui. Il padre del protagonista invece è praticamente assente. Perché?
«Mi piace lavorare sul minimo di figure e di spazi, sviluppo la trama dopo aver tratteggiato i personaggi chiave con la massima economia di mezzi, in modo da focalizzarmi sulla storia. A seconda del tipo di trama, l’importanza dei personaggi prende una piega diversa».
In un certo senso il libro pare un «delitto senza castigo»: ciascuno di noi è un potenziale Yu-ji e le radici del male sono ben piantate in ogni essere umano?
«Tutti abbiamo aspetti positivi e negativi, luce e tenebra coesistono. Le parti oscure sono represse dall’educazione e dalle convenzioni sociali, dalle regole, dalle leggi, dalla morale. È difficile vivere essendo solamente buoni o cattivi. Chi fosse soltanto buono cadrebbe vittima di qualcun altro, uno solo cattivo subirebbe pesanti sanzioni sociali. Quanto questo sia vero lo dimostra la storia dell’evoluzione».
Dunque tutti siamo un po’ cattivi...
«Ciascuno ha un lato malvagio. A un certo punto, se interviene qualcosa ad annullare le aspettative sociali e morali, la gente fa cose difficili da comprendere. In questo romanzo il protagonista ha una sua propensione al male ed è più facile che le norme sociali vengano, per così dire, disconnesse dentro di lui».
A leggere il romanzo sembrerebbe che i giovani siano vittime degli adulti.
«Mi viene da pensare che di solito siano i genitori a provocare danni irreversibili alla tua vita. Le cicatrici dell’infanzia possono portare alla distruzione, come qualcosa che messo sotto pressione può esplodere. Ho fatto i conti con questo in un mio romanzo precedente, Sette anni di tenebra. Yu-jin è un po’ diverso: è considerato uno psicopatico, uno che non si fa piegare da influenze esterne. Sono certa che i condizionamenti castranti di sua mamma e della zia abbiano giocato un ruolo nella sua formazione, anche se non è l’aspetto principale. Qui si parla piuttosto dei tentativi della madre di fermare la malattia mentale del figlio».
La malattia mentale, appunto. È al centro del romanzo e anche di almeno un altro dei suoi lavori precedenti. E lei è stata infermiera. Quanto di quell’esperienza è confluita nelle sue trame?
«La mia esperienza ha avuto più influenza sul formarsi della mia visione del mondo che sullo sviluppo di qualsiasi trama».
Cioè?
«Ho trascorso tanto tempo in un pronto soccorso e in un’unità di cura intensiva come infermiera. Sono luoghi dove vedi persone al limite della morte e persone che in un attimo passano da un estremo all’altro dell’esistenza. Io, che a vent’anni avrei dovuto pensare solo a vivere, ho cominciato a prendere in considerazione la morte, e ho imparato una cruda verità: che la morte è un debito che ciascuno prima o poi deve pagare, come dice Stephen King. È allora che mi sono abituata a valutare me stessa con obiettività e mi sono data una visione del mondo che mi porta a considerare gli esseri umani semplicemente come uno dei molti organismi viventi sulla terra. E per uno scrittore la visione del mondo è tutto».
Lei cita King. È lo scrittore che l’ha influenzata più di tutti?
«Da King ho imparato tutto. Come s’imbastisce una storia... tutto. Prima di cominciare a scrivere, i suoi libri me li sono studiati. Torno a leggerlo quando m’incaglio o ho troppe cose in testa. C’è chi lo considera un semplice scrittore dell’orrore ma non è così. È un geniale inventore di storie capace di svelare il lato oscuro della natura umana, la violenza del fato, la solitudine».
In «Le origini del male» il cattolicesimo è uno degli elementi presenti, come nella scena d’apertura. Lei stessa è stata educata alla fede cattolica e il cristianesimo, declinato nelle diverse confessioni, è molto diffuso in Corea del Sud. Che cosa vuol dire questo per lei, come persona e come autrice?
«Vengo da una famiglia di cattolici devoti e da cattolica sono stata educata. Non lo nego: questo ha influenzato il mio comportamento e i miei valori. Sono sicura che la madre de Le origini del male sia cattolica perché lo era anche mia mamma. Se la famiglia del romanzo sembra religiosa è probabilmente perché io stessa sono cresciuta in una religiosità che rispetto ancora. Per quanto mi riguarda, sono un’evoluzionista di stretta osservanza».
Nei film e nella narrativa coreana, perlomeno in quella accessibile in traduzione, la violenza, aperta o nascosta, è spesso presente come un elemento costitutivo della società. È proprio così?
«La Corea del Sud ha un tasso di crimini basso e, in virtù della tradizione confuciana, si richiedono agli individui alti standard di moralità. Vedi in giro poca violenza, se ti dimentichi il computer in un caffè nessuno te lo porta via. La violenza interpersonale resta sottotraccia. Per dire: la violenza domestica, quella sessuale, gli abusi all’infanzia, questioni che discendono da una tradizione confuciana che favorisce il patriarcato e i legami familiari, sono stati storicamente rimossi. Come problema sociale sono affiorati soltanto da una decina d’anni o giù di lì. Penso che sia per questo che letteratura e cinema esplorano il tema».