La Lettura, 14 aprile 2019
La servitù volontaria? Chiedi al Dna
Nel Discorso sulla servitù volontaria, Étienne de La Boétie (l’amico di Montaigne scomparso a nemmeno 33 anni) si interroga sul paradosso apparente della tirannide: sul potere di un uomo che non ha altra forza se non quella che moltitudini sottomesse gli conferiscono. Partendo da questo snodo (e citando La Boétie), il celebre neuroscienziato Jean-Didier Vincent articola Biologia del potere (traduzione di Silvio Ferraresi, Codice, pagine 206, e 20); testo denso e ambizioso, pieno di passaggi illuminanti, in cui però tante premesse cariche di potenziali implicazioni (e suggestioni) non vengono sviluppate e affinate in modo adeguato.
Nel ricondurre i tratti delle relazioni di potere del Sapiens (dominanza e soggezione, paura indotta e subita) ai loro correlati neuroanatomici e neurobiologici (a certe aree cerebrali e alle loro interazioni, o all’incidenza di neurotrasmettitori e/o ormoni), Vincent non trascura nulla: la cornice biologico-evoluzionistica, da cui emerge il valore adattativo dell’aggressività e della violenza; in quella cornice, i raffronti paleo-antropologici tra i nostri assetti sociali e quelli più arcaici (i pigmei e gli hadza kenyani come «sopravvivenze» di comunità solidali simili a quelle della caccia-raccolta); e le comparazioni etologiche, svolte evitando di «umanizzare» gli animali in senso disneyano (la dominanza nell’«ordine di beccata» dei polli, la xenofobia delle oche e le varianti genetiche che distinguono le arvicole di montagna, poligame e aggressive, da quelle di campagna, monogame e affettivo-empatiche). In quest’ottica, i passaggi tecnici risultano più chiari e chiarificatori: vedi quelli sul testosterone (non tanto l’«ormone del potere», quanto dell’allarme-allerta) o sull’ossitocina, che invece è davvero l’«ormone sociale» per eccellenza.
Peccato che pur disponendo con simile cura le pedine sulla scacchiera, Vincent non riesca poi a giocare la partita fino in fondo, azzardando anzi qualche mossa goffa o fuori luogo. Nel libro ci sono evocazioni fuorvianti, come quelle su categorie (il «male» o la «malvagità») che la scienza dovrebbe lasciare all’ambito teologico-filosofico. Oppure, generalizzazioni insostenibili: il fatto che ormai si conoscano nei dettagli i substrati neurali dell’apatia-psicopatia come tratto condiviso da tanti uomini «di potere» con ludopatici o serial-killer (il sub-funzionamento di certe aree del cervello limbico – quello «emotivo» – tale da necessitare di stimoli molto alti per attivare la percezione del rischio e della responsabilità; o l’incapacità, a rovescio, di controllare quelle aree per un deficit di quelle corticali, più «razionali») non autorizza a concludere che «un delitto passionale commesso sotto il dominio della collera» imponga «l’indulgenza» e «la comprensione della giuria». Siamo dalle parti della «tempesta emotiva» addotta di recente in Italia per un’atroce sentenza su un femminicidio: mentre snodi simili implicherebbero altra sottigliezza. E soprattutto, Vincent perde l’occasione di affrontare la vera riflessione: quella sul rapporto tra certi vincoli biologici del Sapiens e la loro plasmabilità «culturale» (per intenderci: il conflitto tra l’homo homini lupus di Hobbes e il «contratto sociale» di Rousseau); sull’effettiva influenza di istruzione, educazione e diritto in rapporto a dinamiche di potere alla base di ingiustizie o ineguaglianze.
In quest’ambito, anche il paradosso di La Boétie – la «servitù volontaria» dei sudditi al tiranno – troverebbe una spiegazione meno evasiva, magari sul carattere adattativo di certi altri tratti della soggezione (pavidità, interesse, conformismo) o su quello non univoco dell’empatia: i regimi si poggiano spesso su adesioni sottoculturali di vaste «zone grigie» più che di frange estreme. In fondo, il paradosso era stato già risolto da Trilussa nella poesia Dialogo dell’uno e dello zero (1944), in cui l’uno ammette la propria esiguità («Conterò poco, è vero»), ma ricorda come mettendosi «a capofila» di 5 zeri possa diventare «centomila»: proprio come succede «a un dipresso» «ar dittatore/ che cresce de potenza e de valore/ più so’ li zeri che je vanno appresso».