Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto
Biografia di Giancarlo Gaeta raccontata da lui medesimo
Coltivare i margini, proteggerli e viverli come fossero la sola testimonianza di autenticità oggi plausibile, lasciando perdere il culto del centro, quello stentoreo e appariscente modello di vita dove l’Io si glorifica e si selfizza oltre ogni limite. Oltre ogni decenza. Ecco un modo d’essere che si riflette come pietra lucente nell’incontro con Giancarlo Gaeta. Vive a Firenze, ha insegnato storia del cristianesimo e storia delle religioni, ha tradotto e curato per Adelphi i Quaderni di Simone Weil, autrice che egli considera imprescindibile per chiunque voglia capire senza conformismi cosa sia stato il Novecento. È un uomo mite e schivo. Ha da poco pubblicato per Quodilibet un libro sulla Weil e ne sta preparando uno nuovo, in cui racchiude la lunga esperienza fatta di letture illuminanti e di traduzioni: «So che senza le immagini e il linguaggio di Franz Kafka, di Simone Weil, di Etty Hillesum, di Dietrich Bonhoeffer, non avrei potuto neppure tentare di comunicare qualcosa di una ricerca incerta, faticosa, contraddittoria».
Perché proprio loro?
«Loro e alcuni altri, certo. Ma è come se non fossi stato io a sceglierli. È che semplicemente non si può evitare di incontrarli non appena la domanda sulla fede è posta senza riserve in questo tempo che viviamo».
C’è ancora posto per la fede?
«In un’epoca in cui si è perduto tutto ciò che poteva un tempo garantire il rifugio di un’appartenenza, la fede non può più essere una questione relativa alla salvezza della propria o altrui anima. È una questione che riguarda la verità sulla condizione umana».
È questo che le hanno insegnato i suoi studi?
«È quello che mi ha insegnato la vita, il percorso esistenziale anomalo intrapreso da giovane».
Anomalo perché?
«Ho preso la mia laurea in filosofia moderna a Roma con Guido Calogero. Poco prima accettai una borsa di studio all’Istituto di scienze religiose di Bologna. Me l’assegnarono a patto che lasciassi la filosofia e mi occupassi di esegesi neotestamentaria».
Però Calogero era una figura incontestabilmente laica.
«Infatti mi laureai su Kierkegaard ed ebbi come correlatore Enrico Castelli».
Castelli fu una figura assai singolare per l’università di Roma.
«Aveva un’intelligenza complessa e affascinante. Leggendari certi suoi seminari ai quali partecipavano i più autorevoli filosofi e teologi europei. La sua ermeneutica religiosa lo spingeva verso un esistenzialismo teologico, su cui evidentemente Kierkegaard, o la lettura che ne era stata data soprattutto in Francia, aveva influito. Quanto a me, più che all’esistenzialismo guardavo all’esistenza delle cose e dei moti di spirito».
Cosa intende dire?
«Il lavoro che svolsi nell’Istituto bolognese si concentrò soprattutto sulle fonti del Cristianesimo antico. Fu Giuseppe Alberigo ad accogliermi e, tra le personalità più rilevanti, c’era anche lo storico Paolo Prodi. Lo ricordo con grandissimo affetto. Prima di morire scrisse Officina bolognese, in cui raccontava le vicende di quell’Istituto fondato da Giuseppe Dossetti. Uno dei più bei capitoli della storia culturale italiana».
Ha conosciuto Dossetti?
«Ho avuto un lungo rapporto con lui. Dall’autunno del 1967 fino al 1972 quando da Bologna volle trasferirsi a Gerico. E poi dal 1976 quando con mia moglie e il primo figlio andammo a vivere in Palestina».
Che cosa spinse Dossetti laggiù?
«La necessità di fare politica alla luce della fede. Niente progetti teologici ma solo la vita cristiana. Non si può capire il significato della sua riflessione religiosa senza tener conto della discontinuità prodotta da quella scelta».
È molto suggestivo l’andare nel “deserto”. Ma in pratica cosa significava?
«Dossetti era tormentato dalla questione mediorientale. Cercava di capire le ragioni del conflitto arabo-israeliano. Scelse di vivere nelle baracche di Gerico tra gli arabi più poveri. Comprendendo perfettamente che la convivenza tra i due popoli era minacciata dal radicalismo islamico e dalla durezza della politica di Israele. Alla fine, credo anche perché osteggiato, tornò in Italia nell’inverno del 1976 per stabilirsi a Monte Sole».
Perché proprio lì?
«Erano i luoghi di Marzabotto, dell’eccidio terrificante consumato dai nazisti. Sul punto più estremo della violenza, Dossetti costruì la sua testimonianza comunitaria».
Lei lo seguì?
«Restammo in Palestina per circa un anno ancora».
Come si trovò?
«Per tutta la prima parte del soggiorno fu un’esperienza molto forte. Con mia moglie avevamo ipotizzato di spingerci più a est verso Iraq e Siria. Si trattava di un mondo affascinante. Oltretutto, la Terra Santa a me non comunicava molto. Ero attratto dalla cultura islamica. Cominciammo a studiare l’arabo oltreché l’ebraico».
Dove vivevate?
«A Betania, in un villaggio tra Gerusalemme est e Gerico. Lì era stato impiantato un piccolo monastero all’aperto con casupole e un giardino. Era una vita dura, condivisa con i confratelli. Con la partenza di Dossetti le cose si complicarono».
In che senso?
«Venuta meno la sua presenza la comunità si sfilacciò, i rapporti si fecero più difficili. La situazione metteva a nudo le nostre debolezze e velleità. Sicché rientrammo a Bologna. Quell’esperienza era stata importante e per certi versi rinviava alla mia infanzia, abbastanza povera e intensa da assomigliargli».
Dove è nato?
«A Roma nel luglio 1942. Sono il primo di quattro fratelli. Dopo la guerra questa grande famiglia faceva fatica a vivere perciò ci trasferimmo in un paesino delle Marche e poi a Fabriano. Mio padre era un piccolo funzionario del ministero delle finanze. Responsabile della filigrana della carta moneta che si produceva nelle cartiere di Fabriano. Tornai a Roma per l’università e poi, come le ho detto, a Bologna. Dall’Istituto mi mandarono a Parigi dove, all’École Pratique des Hautes Études, seguii le lezioni di Oscar Cullmann. In Germania feci sosta ad Heidelberg e a Tubinga dove seguii un seminario di Ernst Bloch sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel».
Che ricordo ha di Bloch?
«Molto vago, anche perché il mio tedesco era poco fluente. Mi ero sistemato in un angolino dell’aula cercando di farmi notare il meno possibile. Bloch faceva lezioni molto puntigliose. Certo profonde, ma non brillanti come quelle che Kojève tenne a Parigi negli anni Trenta. Aveva la particolarità, mentre parlava o mentre camminava, di interrompersi di colpo. Scorgevo su quel volto grande l’incanto che produce il vuoto quando insegue non so quale segreto pensiero».
Ad Heidelberg invece?
«Studiai con Günther Bornkamm che era stato allievo di Rudolf Bultmann».
Si trattava di teologia protestante.
«L’Università pontificia ci spediva apposta per confrontarci dal vivo con quelle correnti di pensiero. Studiare o specializzarsi in una facoltà protestante fu un’ottima iniziazione!».
Quando avvenne l’incontro con il pensiero di Simone Weil?
«Durante gli ultimi anni universitari. Il primo incontro fu fuggevole come a volte capita con le persone destinate a segnare la nostra vita. Sfogliai i primi suoi libri nelle edizioni Comunità, si parlava di condizione operaia, di oppressione e di libertà. Poi nell’Istituto bolognese lessi i Cahiers: una costruzione labirintica e affascinante, guidata da una riflessione filosofica grandissima. Pensai perfino di cambiare tesi. Ma un assistente di Calogero mi disse che non avrebbero mai potuto accettare una tesi di laurea su una sociologa!».
Credo che pochi sapessero di lei: Cristina Campo, Margherita Pieracci Hardwell, Franco Fortini e non so chi altro.
«Aggiungerei Augusto Del Noce che nel 1968 scrisse un saggio importante anche se contestabile».
Lei ha curato i "Cahiers" per l’Adelphi. Come si sviluppò il rapporto?
«Dopo la laurea proposi a Michele Ranchetti la traduzione. Ranchetti, oltre a essere un uomo affascinante, era un grande storico delle religioni. Mi mandò da Luciano Foà, allora a capo dell’Adelphi. Foà apprezzò molto la proposta, ma aggiunse che la casa editrice era ancora troppo giovane per poter accollarsi un impegno così gravoso».
Che anno era?
«Forse il 1971 o il 1972. Nel 1974 Foà mi richiamò comunicandomi la decisione di voler avviare un piano dell’opera. Alla quale cominciai a lavorare seriamente nel periodo in cui mi trasferii in Palestina».
Se dovesse incastonare i "Quaderni" in una definizione?
«Più li leggo, più ci rifletto, più li sento come una grande opera d’arte. La Weil definì il suo pensiero filosofia sperimentale. Dove sperimentale è la capacità di tenere in comunicazione il pensiero con la vita, con l’esistenza del proprio tempo».
In altre parole esistenzialismo?
«No, assolutamente no. Per tutto il pensiero novecentesco, incluso l’esistenzialismo, Weil è stata un’anomalia, che però si può capire meglio all’interno della ricerca artistica del ’900. La forma di scrittura più spontanea è stata per lei il frammento. La sua riflessione non parte mai da una tesi, non c’è nessun intento di dimostrare qualcosa. Il suo pensiero cresce e si ramifica come certo astrattismo o come la musica dodecafonica».
Una scrittura senza centro?
«C’è un centro potentissimo ed è il pensiero ma non viene esibito, è un centro vuoto che si alimenta del furore della vita. È un pensiero che se venisse assunto accademicamente si snaturerebbe. Certo, va studiato con oggettività, ma alla fine ciò che conta è il confronto personale».
Lei cosa ne ha ricavato?
«Mi ha cambiato il modo di guardare la realtà. La sua voce remota, impossibile da ricondurre alle correnti del pensiero novecentesco, ha creato una via d’ uscita salutare contro le miserie della sua e della nostra epoca. La sua attitudine a privilegiare la realtà umana mi ha coinvolto come lettore e come persona».
Da dove nasce una personalità come la sua?
«È un’eccezione, un’anomalia del ’900. Basti vedere il rapporto con il fratello André, geniale quanto lei, ma uomo comune, con bisogni ed esigenze molto mondane: la carriera, il successo, la famiglia. Mentre Simone fin da bambina è un essere che si dispera. Vive emotivamente il rapporto con le cose e con ciò che legge. Anche nella fede è qualcosa di unico. Si sente cristiana ma non crede in Dio. Che Dio ci sia o non ci sia è secondario. Quello che conta è desiderare Dio. Ecco perché alla fine può follemente immaginare un Cristianesimo non condizionato dalla Chiesa».
Può perfino parlare di una Grecia cristiana.
«Può farlo perché cadono con lei i confini dove un pensiero e un’esperienza di fede possono spingersi. Questo è valso per lei ma anche, in chiave diversa, per Benjamin, per Bonhoeffer e per Etty Hillesum. Ciascuno, a suo modo, ha rappresentato un’esigenza di verità. Ma a costoro non è stato concesso di fecondare il presente. Sono straordinarie eccezioni con le quali ci si può confrontare solo singolarmente».
Perché?
«Perché ha perso forza il tessuto collettivo e perché un cristianesimo senza religione, che è quello pensato e vissuto da Bonhoeffer, non va verso i grandi numeri. Negli anni sessanta Michel de Certeau discutendo con il direttore di Esprit sul cristianesimo in frantumi disse chiaramente che la Chiesa cattolica non era in grado di reggere l’urto della secolarizzazione. Di qui il bisogno di ripartire da piccole comunità».
Le sembra realistico oggi?
«Non lo so, se guardo al pontificato di Bergoglio vedo crescere discussione e conflittualità. Come se tutti siano stati presi alla sprovvista dal modo in cui il Papa sta interpretando la sua funzione. La novità sta nel fatto che egli non appare tanto interessato a ridare prestigio e centralità sociale alla Chiesa, bensì a rendere evidente la necessità di coniugare in tutt’altro modo il rapporto tra Chiesa e Vangelo, restituendo a quest’ultimo il primato ceduto all’istituzione sin quasi dall’inizio della storia cristiana».
Se l’egemonia della Chiesa decade cosa la sostituisce?
«Si tratta intanto di una dissoluzione di cui Simone Weil era fortemente consapevole. La sua accusa era nei riguardi di una Chiesa considerata non all’altezza di un’epoca senza precedenti. Come consapevoli furono in seguito Dossetti e de Certeau che da punti di vista diversi si sono interrogati sulla situazione del Cristianesimo nella nostra società. Bergoglio è su questa direzione. O meglio è sulla direzione del gesuita Michel de Certeau che aveva a lungo lavorato sul mistico, anch’egli gesuita, Pietro Favre ».
Sta parlando di un beatificato del Cinquecento.
«Sì e che Bergoglio ha canonizzato qualche anno fa. Non è un gesto irrilevante. È come se stesse dicendo questa Chiesa o si riforma o muore. Il problema è che in papa Francesco c’è il coraggio ma non so se ci sia la forza sufficiente. Un’operazione come quella cui sta pensando potrebbe avere una possibilità di riuscita se partisse dal basso. Non si è mai dato che il vertice di un’istituzione millenaria distrugga se stessa».